domenica 11 novembre 2018

Soli e liberi nell'Universo

Tratto da:
Edwars O. Wilson, Il significato dell'esistenza umana, Ed. Le Scienze, 2015

Parte V

Un futuro per l'umanità

Nell'era tecnoscientifica, la libertà ha acquisito un nuovo significato. Come un adulto che emerge dall'infanzia, la nostra specie dispone di una gamma di scelte immensamente più ampia, ma è anche gravata da un numero proporzionalmente maggiore di rischi e responsabilità.

Capitolo 15

Soli e liberi nell'Universo

Che cosa ci insegna la storia della nostra specie? Mi riferisco qui a ciò che ci è stato svelato dalla scienza, non alla versione arcaica imbevuta di religione e ideologia. Io credo che le prove disponibili siano abbastanza corpose e sufficientemente chiare per dirci quanto segue: non siamo stati creati da un'intelligenza soprannaturale ma dal caso e dalla necessità; siamo una specie fra milioni di altre presenti nella biosfera terrestre. Per quanto si voglia sperare e desiderare altrimenti, non vi è prova alcuna di una grazia che scende luminosa su di noi dall'esterno, nessuno scopo o destino dimostrabile che ci sia stato assegnato, nessuna seconda vita accordataci alla fine di quella attuale. A quanto pare, siamo completamente soli. Il che, a mio avviso, è un'ottima cosa. Significa che siamo completamente liberi. Di conseguenza possiamo individuare più facilmente la radice delle convinzioni irrazionali che ci dividono in modo tanto ingiustificato. Abbiamo davanti a noi nuove opzioni che in epoche precedenti non erano nemmeno immaginabili, ed esse ci danno il potere di affrontare con maggior fiducia il più grande obiettivo di tutti i tempi: l'unità della razza umana.
Il prerequisito per il suo raggiungimento è un'accurata comprensione di sé. Qual è, dunque, il significato dell'esistenza umana? Ho proposto che esso sia la grande epopea della specie, iniziata nell'evoluzione biologica e nella preistoria, e poi entrata nella storia registrata; ed è anche — proprio adesso, giorno per giorno, proiettato sempre più velocemente nel futuro indefinito — quello che decidiamo di diventare.
Parlare dell'esistenza umana significa mettere meglio a fuoco la differenza tra le discipline umanistiche e la scienza.
Le discipline umanistiche affrontano nei minimi particolari tutti i vari modi in cui gli esseri umani entrano in relazione gli uni con gli altri e con l'ambiente, quest'ultimo comprendente piante e animali di interesse estetico e pratico. La scienza affronta tutto il resto. La prospettiva indipendente delle discipline umanistiche descrive la condizione umana, ma non ci dice perché essa sia in un modo e non in un altro. La prospettiva scientifica è immensamente più ampia. Abbraccia il significato dell'esistenza umana: i principi generali della condizione umana, il luogo in cui la nostra specie si colloca nell'Universo, e prima ancora il perché della sua esistenza.
L'umanità ebbe origine come un accidente dell'evoluzione, un prodotto di mutazioni casuali e selezione naturale. La nostra specie fu soltanto un punto d'arrivo, raggiunto dopo molteplici svolte e tortuosità, da una singola linea evolutiva di primati del Vecchio mondo (proscimmie, scimmie, grandi antropomorfe, esseri umani): primati dei quali oggi esistono diverse centinaia di altre specie native, ciascuna delle quali generata della propria sequenza di svolte e tortuosità. Saremmo potuti benissimo rimanere semplici australopitecine fra le altre, dotate di un cervello con dimensioni da scimmia antropomorfa, intente a raccogliere frutta e a catturare pesci con le mani, per andare infine incontro all'estinzione come le altre specie del gruppo.
Nell'arco dei quattrocento milioni di anni in cui gli animali di grandi dimensioni hanno colonizzato le terre emerse, Homo sapiens è stato l'unico a evolvere un'intelligenza sufficiente a creare una civiltà. I nostri parenti geneticamente più stretti, gli scimpanzé, oggi rappresentati da due specie (lo scimpanzé comune e il bonobo), ci arrivarono molto vicini.
Le linee evolutive degli esseri umani e degli scimpanzé si divisero in Africa, circa sei milioni di anni fa, a partire da un ceppo comune. Sono passate pressappoco duecentomila generazioni, un tempo più che sufficiente perché la selezione naturale potesse imporre una serie di fondamentali cambiamenti genetici. I preumani possedevano alcuni vantaggi che influenzarono la loro evoluzione successiva. Questi includevano, all'inizio, una vita parzialmente arborea e il libero uso degli arti anteriori che ne conseguì. Tale condizione arcaica andò poi modificandosi in una vita primariamente trascorsa al suolo. Tra le condizioni che influenzarono l'evoluzione successiva dei nostri antenati vi furono anche un grande cervello e un immenso continente, dotato di un clima per lo più temperato e di vastissime praterie con boscaglie asciutte e aperte.
In seguito, tra le precondizioni favorevoli vi furono anche i frequenti incendi che promuovevano la crescita di nuova vegetazione erbacea e arbustiva. Inoltre, ancora più importante, gli incendi resero possibile un successivo cambiamento della dieta, che si spostò sulla carne cotta. Questa rara combinazione di circostanze, come premessa della loro evoluzione, unita alla fortuna (nessun mutamento climatico devastante, nessuna eruzione vulcanica e nessuna grave pandemia), fu un lancio di dadi con esito favorevole ai primi esseri umani.
Simili a dèi, i loro discendenti si sono diffusi saturando gran parte della Terra, e alterando in varia misura il resto: siamo diventati la mente del pianeta e forse anche di tutto il nostro angolo di galassia. Possiamo fare quello che ci pare della Terra. Continuiamo a parlare di distruggerla: con una guerra nucleare, un cambiamento climatico, una apocalittica "seconda venuta" prevista dalle Sacre scritture.
Noi esseri umani non siamo malvagi per natura. Abbiamo
abbastanza intelligenza, buona volontà, generosità e intraprendenza per poter trasformare la Terra in un paradiso sia
per noi stessi, sia per la biosfera che ci ha dato la vita. È plausibile che si possa raggiungere quella meta, o per lo meno percorrere un buon tratto di strada per arrivarci, entro la fine di questo secolo. Il problema, nel resistere fino ad allora, è che Homo sapiens è una specie intrinsecamente disfunzionale. Siamo ostacolati dalla "maledizione del Paleolitico": gli adattamenti genetici che hanno funzionato a meraviglia per i milioni di anni in cui abbiamo condotto un'esistenza da cacciatori-raccoglitori ci sono ora sempre più di impaccio in una società globalmente urbana e tecnoscientifica. Sembriamo incapaci di stabilizzare le politiche economiche o gli strumenti di governo portandoli a un livello superiore a quello del villaggio. In tutto il mondo, poi, la grande maggioranza degli esseri umani rimane sotto il giogo delle religioni tribali organizzate, guidate da uomini in competizione che si attribuiscono poteri soprannaturali per conquistarsi l'obbedienza e le risorse dei fedeli. Siamo dipendenti, come fosse una droga, dal conflitto tribale: conflitto che è innocuo e divertente se sublimato, per esempio, negli sport di squadra; ma che si rivela letale se espresso nel mondo reale, sotto forma di conflitti etnici, religiosi e ideologici. Vi sono altri fattori ereditari che influenzano il nostro comportamento. Troppo concentrati su noi stessi per proteggere il resto della vita, continuiamo a distruggere l'ambiente naturale, il patrimonio più insostituibile e prezioso di cui la nostra specie disponga. Ed è ancora un tabù proporre politiche demografiche miranti a ottimizzare sia la densità della popolazione, sia la sua distribuzione dal punto di vista geografico e per fasce di età. L'idea suona "fascista", e in ogni caso può essere rimandata ancora di una o due generazioni, per lo meno così speriamo.
La disfunzionalità della nostra specie ha prodotto una miopia ereditaria con la quale tutti noi abbiamo una imbarazzante familiarità. La gente trova difficile preoccuparsi di altre persone al di fuori della propria tribù o del proprio paese, e comunque distanti più di una o due generazioni. Ancora più difficile è interessarsi alle specie animali, salvo che per i cani, i cavalli e altri rappresentanti di quel piccolissimo gruppo di animali che abbiamo domesticato affinché fossero i nostri servili compagni.
I nostri leader in campo religioso, politico e industriale per lo più accettano le spiegazioni soprannaturali dell'esistenza umana. Anche se in privato sono scettici, non hanno alcun interesse a opporsi alle autorità religiose e ad agitare inutilmente il volgo, dal quale attingono potere e privilegi.
Particolarmente deludenti sono gli scienziati, che potrebbero contribuire a una prospettiva più realistica; in larga misura fedeli subordinati, sono nani intellettuali soddisfatti di restarsene nei ristretti ambiti di specializzazione per i quali sono stati addestrati e ricevono uno stipendio.
Parte della disfunzione, ovviamente, deriva dallo stadio giovanile in cui si trova la civiltà globale, che è ancora un work in progress. Una parte più cospicua, tuttavia, è da attribuirsi semplicemente al fatto che il nostro cervello è mal cablato. La natura umana ereditaria è il lascito genetico del nostro passato preumano e paleolitico: «Lo stampo indelebile della sua bassa origine» [1] come lo definì Charles Darwin, dapprima nell'anatomia (L'origine dell'uomo) e poi nei segnali facciali delle emozioni (L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali [2]). Gli psicologi evoluzionisti si sono spinti oltre, spiegando il ruolo dell'evoluzione biologica nelle differenze di genere, nello sviluppo mentale del bambino, nell'attribuzione del rango, nell'aggressività tribale e perfino nelle scelte alimentari.
Come ho proposto in scritti precedenti, la catena di causazione è ancora più profonda, dal momento che si estende fino al livello dell'organizzazione biologica su cui opera la selezione naturale. All'interno del gruppo l'atto egoista di un membro fornisce a chi lo compie un vantaggio competitivo, ma di solito si rivela distruttivo per il gruppo nel suo complesso.
Rispetto alla selezione a livello individuale, la selezione di gruppo — in cui un insieme di individui è contrapposto all'altro — opera in senso opposto: quando un membro si comporta in modo cooperativo e altruista riduce, in proporzione, il suo vantaggio nella competizione con gli altri membri del gruppo, ma aumenta il tasso di sopravvivenza e di riproduzione del gruppo nel suo complesso. In breve, la selezione individuale promuove quello che chiamiamo peccato, mentre la selezione di gruppo promuove la virtù. Il risultato è il conflitto interiore, il conflitto di coscienza, che affligge tutti salvo i sociopatici, i quali fortunatamente, stando alle stime, ammontano solo all'l-4 per cento della popolazione.
I prodotti dei due vettori opposti della selezione naturale sono cablati nelle nostre emozioni e nel nostro pensiero razionale, e non possono essere cancellati. Il conflitto interiore non è un'anomalia personale, ma una qualità umana senza tempo. Nessuno di tali conflitti esiste o può esistere in un'aquila, una volpe o un ragno, per esempio, i cui tratti comportamentali scaturirono esclusivamente dalla selezione individuale; né in una formica operaia, i cui tratti sociali furono interamente forgiati dalla selezione di gruppo.
Il conflitto interiore, il conflitto di coscienza causato dai diversi livelli della selezione naturale in competizione, è qualcosa di più di un arcano argomento di riflessione per cultori di biologia teorica. Non si tratta della presenza, dentro di noi, del bene e del male che si dilaniano; è invece un tratto biologico fondamentale per comprendere la condizione umana, necessario per la sopravvivenza della specie. Durante l'evoluzione genetica delle specie preumane, pressioni selettive opposte produssero una miscela instabile di reazioni emozionali innate. Esse hanno creato una mente il cui umore muta di continuo, come un caleidoscopio: di volta in volta orgoglioso, aggressivo, competitivo, collerico, vendicativo, venale, sleale, curioso, avventuroso, tribale, audace, umile, patriottico, empatico e amorevole. Tutti gli esseri umani sono nobili e ignobili, e spesso lo sono in stretta alternanza e a volte simultaneamente.
L'instabilità delle emozioni è una qualità che dovremmo voler conservare: è l'essenza stessa del carattere umano, la fonte della nostra creatività. Per pianificare un futuro più razionale e a prova di catastrofe, occorre che comprendiamo noi stessi sia in termini evolutivi, sia in termini psicologici.
Certo dobbiamo imparare a comportarci bene; tuttavia non dobbiamo neanche permetterci di pensare a un addomesticamento della natura umana.
I biologi usano l'utilissimo concetto di carico parassitario tollerabile, un carico per definizione oneroso ma non insostenibile. Quasi tutte le specie di piante e animali ospitano parassiti che, sempre per definizione, sono altre specie che vivono sulla superficie, o all'interno, dell'organismo ospite, nella maggior parte dei casi prelevandone una qualche piccola parte senza ucciderlo. I parassiti, in breve, sono predatori che consumano la propria preda in quantità inferiori all'unità; quelli "tollerabili" sono evoluti in modo da assicurarsi sopravvivenza e riproduzione, imponendo al tempo stesso al proprio ospite sofferenze e costi minimi. Per un individuo sarebbe un errore cercare di eliminare tutti i propri parassiti tollerabili: il costo sarebbe troppo alto in termini di tempo, e le stesse funzioni dell'ospite ne uscirebbero troppo perturbate. Chi avesse qualche dubbio su questo principio può riflettere su che cosa occorrerebbe fare per sterminare i quasi microscopici acari Demodex che forse vivono (la probabilità è pressappoco del 50 per cento) alla base dei peli delle sue sopracciglia. Per non parlare dei milioni di batteri poco raccomandabili che prosperano accanto a quelli benefici nei liquidi pieni di nutrienti della nostra bocca.
I tratti innati distruttivi della vita sociale possono essere considerati simili alla presenza fisica degli organismi parassiti, e l'impoverimento culturale causato dal loro impatto come l'indebolimento associato a un carico dogmatico tollerabile.
Un ovvio esempio di quest'ultimo è la fede cieca nelle storie
di una creazione soprannaturale. È chiaro che oggi, in moltissime parti del mondo, moderare il carico dogmatico sarebbe difficile e perfino pericoloso. Le storie sono applicate sia alle leggi tribali, attraverso la subordinazione dei fedeli; sia alla presunta superiorità religiosa di questi ultimi sui credenti di storie rivali. Esaminare oggettivamente nei dettagli ciascuna storia e descriverne le origini conosciute sarebbe un buon punto di partenza, un'impresa peraltro già iniziata in molte discipline di studio (anche se lentamente e con circospezione). Un secondo passo, certo poco realistico, sarebbe quello di chiedere ai leader di ciascuna religione o setta di difendere pubblicamente, assistiti da teologi, gli aspetti soprannaturali delle rispettive fedi, aiutati dall'analisi della storia e delle cause naturali.
È stata prassi universale denunciare come blasfemi questi atti di sfida alle dottrine fondamentali delle singole fedi; eppure nel mondo odierno, meglio informato, non sarebbe affatto irrazionale ribaltare quella prassi e accusare di blasfemia qualsiasi leader religioso o politico asserisca di parlare con Dio o in suo nome. L'idea è quella di porre la dignità personale del credente al di sopra di quella della credenza che gli impone cieca obbedienza. Alla fine sarebbe possibile tenere seminari sulla figura storica di Gesù nelle chiese evangeliche e perfino pubblicare immagini di Maometto senza rischiare la morte.
Sarebbe un autentico grido di libertà. La stessa prassi potrebbe essere adottata per le ideologie politiche dogmatiche delle quali abbiamo, nel complesso, fin troppi esempi nel mondo. Il ragionamento alla base di queste religioni laiche è sempre lo stesso: una proposizione considerata logicamente vera seguita da una spiegazione top-down e da un elenco di prove ben selezionate che si asserisce siano a suo sostegno.
Fanatici e dittatori, allo stesso modo, sentirebbero la propria forza estinguersi se si chiedesse loro di spiegare i propri assunti ("parli chiaro, per cortesia") e di dimostrare la verità delle loro credenze fondamentali.
Tra i più virulenti di tutti gli equivalenti culturali dei parassiti c'è la negazione, basata sulla religione, dell'evoluzione biologica. Circa metà degli statunitensi (il 46 per cento nel 2013, dal 44 per cento che erano nel 1980), per la maggior parte cristiani evangelici, insieme a una frazione paragonabile di musulmani in tutto il mondo, crede che tale processo non sia mai avvenuto. In quanto creazionisti, insistono affermando che Dio avrebbe creato l'umanità e le altre forme di vita producendosi in uno o più grandi numeri di magia.
La loro mente è chiusa alla massa schiacciante delle dimostrazioni fattuali dell'evoluzione, sempre più interconnesse a tutti i livelli dell'organizzazione biologica, dalle molecole agli ecosistemi, alla geografia della biodiversità. Ignorano — o più precisamente ritengono virtuoso continuare a ignorare — l'evoluzione in corso, osservata sul campo, perfino quando è ricondotta ai geni implicati; né degnano di alcuna attenzione le nuove specie create in laboratorio. Per i creazionisti l'evoluzione è, nel migliore dei casi, una teoria non dimostrata.
Per alcuni, poi, è un'idea inventata da Satana e trasmessa agli esseri umani, allo scopo di fuorviarli, da Darwin e dagli scienziati venuti dopo di lui. Quando ero bambino frequentavo una chiesa evangelica in Florida, dove mi insegnavano che gli agenti di Satana, sparsi nel mondo, sono estremamente intelligenti e determinati, ma tutti mentitori — uomini e donne allo stesso modo — e quindi, a prescindere da quello che sentivo dire, avrei dovuto tapparmi le orecchie e restare saldamente aggrappato alla vera fede.
In democrazia siamo tutti liberi di credere in quello che vogliamo, e quindi perché definire un'opinione qualsiasi, come il creazionismo, "virulento equivalente culturale di un parassita"? Perché esso rappresenta un trionfo della fede religiosa — fede cieca — su fatti verificati meticolosamente. Non è una concezione della realtà forgiata su prove e sul ragionamento logico. È invece parte del prezzo da pagare per essere ammessi in una tribù religiosa. La fede è la prova della sottomissione di una persona a una particolare divinità; e comunque, non direttamente alla divinità ma ad altri esseri umani che affermano di rappresentarla.
Per la società nel suo complesso, il costo delle teste chine è stato enorme. L'evoluzione è un processo fondamentale dell'Universo che non riguarda solo gli organismi viventi, ma ha luogo ovunque, a qualsiasi livello. La sua analisi è essenziale per la biologia, ivi comprese medicina, microbiologia e agronomia. Inoltre la psicologia, l'antropologia e perfino la stessa storia delle religioni non hanno senso senza l'evoluzione come componente chiave, dispiegata nel corso del tempo.
La negazione esplicita dell'evoluzione, presentata come parte di una "scienza della creazione", è una falsità bella e buona: l'equivalente adulto del tapparsi le orecchie, e una perdita per qualsiasi società scelga di acconsentire in quel modo a una fede fondamentalista.
Certo, la fede cieca ha anche qualche conseguenza positiva. Stabilisce legami più forti all'interno dei gruppi e fornisce consolazione ai loro membri. Promuove la carità e un comportamento rispettoso della legge. Forse questi servizi rendono più tollerabile il carico dogmatico. Nondimeno la forza ultima che muove la fede cieca non è un afflato divino, ma la certificazione dell'appartenenza a un gruppo. Il benessere del gruppo e la difesa del suo territorio hanno origini biologiche, non soprannaturali. Fatta eccezione per i paesi che impongono il rispetto di principi teologici, si è dimostrato facile, per gli individui, cambiare religione, contrarre matrimoni inter-religiosi e perfino abbandonare del tutto la religione senza perdere il senso morale né, cosa ugualmente importante, la capacità di meravigliarsi.
Religione a parte, vi sono altri pregiudizi arcaici che hanno indebolito la cultura, benché su basi razionali più logiche e onorevoli. Il più importante è la convinzione che i due grandi campi del sapere — la scienza e le discipline umanistiche — siano intellettualmente indipendenti; non solo: che più distinte le si tiene, meglio è.
Qui ho sostenuto che — sebbene le conoscenze scientifiche e la tecnologia continuino a crescere esponenzialmente, raddoppiando ogni dieci-vent'anni a seconda della disciplina — il loro tasso di crescita inevitabilmente rallenterà. Le scoperte originali, avendo generato un'immensa mole di conoscenze, cominceranno a rallentare il passo e il loro numero andrà declinando. Nell'arco di qualche decennio, le conoscenze riconducibili alla cultura tecnoscientifica saranno ovviamente enormi se confrontate a quelle attuali. D'altra parte, saranno le stesse in tutto il mondo: quelle che invece continueranno a evolvere e a diversificarsi a tempo indefinito saranno le discipline umanistiche. Se veramente la nostra specie ha un'anima, si trova nella cultura umanistica.
Eppure questo importantissimo ramo della cultura, che comprende le arti creative e la loro critica erudita, è ancora ostacolato dalle gravi limitazioni — in larga misura non percepite — del mondo sensoriale in cui la mente umana esiste. Noi siamo creature che si affidano principalmente a vista e udito, inconsapevoli del mondo del gusto e dell'olfatto in cui vive la maggior parte dei milioni di altre specie; siamo inoltre del tutto inconsapevoli dei campi elettrici e magnetici usati da alcuni animali per orientarsi e comunicare. E anche nel nostro stesso mondo, dominato dalla vista e dall'udito, siamo relativamente ciechi e sordi, in grado di percepire direttamente soltanto bande molto limitate dello spettro elettromagnetico e non l'intera gamma delle frequenze che ci investono, trasmesse dalla terra, dall'aria e dall'acqua.
E questo è solo l'inizio. In realtà, sebbene i dettagli delle arti creative siano potenzialmente infiniti, gli archetipi e gli istinti che esse mirano a esemplificare sono pochissimi. Considerate come un ensemble, le emozioni che danno loro vita, anche le più potenti, sono poche: inferiori, in numero, agli strumenti di un'orchestra completa. In linea di massima gli artisti creativi e gli studiosi di discipline umanistiche hanno una scarsa comprensione del continuum, peraltro immenso, dello spazio-tempo: sulla Terra, per quanto riguarda le sue componenti viventi e non viventi, e ancora meno nel sistema solare e nell'Universo al di là di esso. Tutti costoro hanno una percezione corretta di Homo sapiens come di una specie molto peculiare, ma non si soffermano abbastanza a interrogarsi sul significato o sul perché di questa peculiarità.
È vero: la scienza e le discipline umanistiche sono fondamentalmente diverse per quello che affermano e per quello che fanno. Nella loro origine, tuttavia, sono reciprocamente complementari e derivano dagli stessi processi creativi che hanno luogo nel cervello umano. Se il potere euristico e analitico della scienza potrà essere unito alla creatività introspettiva delle discipline umanistiche, l'esistenza umana si eleverà acquisendo un significato infinitamente più fecondo e interessante.

 Note:

1 Charles Darwin, L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto al sesso, Longanesi, Milano 1 971, p. 832 (ed. orig. The Descent of Man and Selection in Relation to sex, 1871).

 2 Charles Darwin, L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali, Bollati Boringhieri, Torino 1999 (ed. orig. The Expression of the Emotions in Man and Animals, 1872).

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