venerdì 26 febbraio 2021

Nube di sabbia del Sahara: l'inquinamento radioattivo che ritorna

Nube di sabbia del Sahara: l'inquinamento radioattivo che ritorna come un boomerang
Postato il 24 febbraio 2021  

Fonte:   https://www.acro.eu.org/nuage-de-sable-du-sahara-une-pollution-radioactive-qui-revient-comme-un-boomerang/

Mentre i venti carichi di polvere del Sahara sorvolano nuovamente l'Europa questa settimana, le analisi dell'ACRO mostrano che contengono residui di inquinamento radioattivo che risalgono ai test della bomba atomica francese negli anni '60.

Inquinamento radioattivo che ritorna come un boomerang


Tra il 1945 e il 1980, gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica, il Regno Unito, la Francia e la Cina hanno condotto 520 test nucleari atmosferici raggiungendo livelli stratosferici e disperdendo grandi quantità di prodotti radioattivi sulla superficie del globo, principalmente nell'emisfero nord. Nei primissimi anni '60, la Francia ha condotto dei test nucleari atmosferici nel Sahara algerino (Reggane) esponendo alle radiazioni i propri soldati e le popolazioni sedentarie e nomadi della regione. Da questo primo test nel Sahara nel 1960 al test finale nella Polinesia francese nel 1996, la Francia ha effettuato 210 lanci nucleari.

Perché parlare oggi - 60 anni dopo - di questi test nucleari nel Sahara?
Il 6 febbraio di quest'anno, gran parte della Francia è stata sottoposta a un fenomeno meteorologico che ha portato venti carichi di sabbia e particelle fini dal Sahara.
Per esempio, nel massiccio del Giura, il cielo è rimasto arancione tutto il giorno e queste particelle atmosferiche si sono depositate sul terreno. La neve, che era bianca al mattino, è diventata arancione a sua volta.

 

Foto scattate il 6 febbraio 2021 nelle montagne del Giura © ACRO

 

Foto scattate il 6 febbraio 2021 nel massiccio del Giura © ACRO

 

 

 

 

 

 

 

La sera, tutte le superfici erano coperte da un sottile strato di queste particelle. L'ACRO ha quindi campionato l'intera superficie di un'auto utilizzando più strisci.

Foto dei depositi di particelle di sabbia fine © ACRO

Questi strisci sono stati trasferiti al laboratorio CORA per l'analisi della radioattività artificiale mediante spettrometria gamma (su un rivelatore GeHP).

Il risultato dell'analisi è conclusivo. Il cesio 137 è chiaramente identificato.
È un radioelemento artificiale che non è naturalmente presente nella sabbia ed è un prodotto della fissione nucleare coinvolta in un'esplosione nucleare.

Considerando depositi omogenei su una vasta area, sulla base di questo risultato analitico, ACRO stima che 80.000 Bq per km2 di cesio-137 sono ricaduti.

L'episodio del 6 febbraio costituisce un inquinamento certamente molto piccolo ma che si aggiunge ai depositi precedenti (test nucleari negli anni '60 e Chernobyl).
Questo inquinamento radioattivo - ancora osservabile a lunghe distanze 60 anni dopo gli spari nucleari - ci ricorda la situazione di contaminazione radioattiva perenne nel Sahara di cui la Francia è responsabile.
 

Foto dello spettro dei risultati dell'analisi della polvere del Sahara mediante spettrometria gamma ad alta risoluzione (GeHP). L'analisi radiologica permette di identificare la presenza di cesio-137 (Cs-137) qui materializzato dal suo picco caratteristico (in rosso) © ACRO.

[Non detto: grazie alla media mondiale delle prove atomiche oggi la radioattività rimanente è 4,2 volte superiore a quella del Cs137, la radiotossicità per inalazione 1849 volte superiore e la radiotossicità per ingestione 14 volte superiore. In breve quando ti danno una dose per inalazione di 1 nSv da Cs137, implica di fatto una dose totale di quasi 2 microSv.]

martedì 23 febbraio 2021

«2054: CHE COS’ERA UNA MATITA?» e "DELLA VITA E DELLA MORTE"

Inverno 1998

Due novelle di Argeo Basevi Magi

(Autore di: "INVOLUZIONISMO COSMICO: Involuzionismo a stadi nell’adultità - Pedagogia della diseducazione - Punto e « co-variazione » della freccia del tempo - Redenzione")

«2054: CHE COS’ERA UNA MATITA?»

Come tutte le mattine dalla mia piccola finestra scorgo il sole all’orizzonte che illumina la giornata e distende i suoi raggi silenziosi su un mondo diventato altrettanto silenzioso, e non certo per gratitudine, ma per necessità.

I colori dell’alba sono ormai diversi; scorro le immagini olografiche proiettate nelle mia stanza e rivedo una natura ormai legata a un ricordo che sembra lontanissimo, tuttavia, di soli cinquant’anni fa.

M’immergo in questi ricordi, mentre attivo il dispensatore di profumi, che mi è stato affidato in pagamento come optional. Intanto osservo le piante all’esterno o meglio ciò che è rimasto di esse.

Chiudo gli occhi e cerco d’immaginarmi fuori dalla mia finestra cinquanta anni fa, insieme al rumore delle automobili che dilagava, all’odore subdolo e sempre più acre dell’aria, alle foglie e ai fiori che a primavera vestivano le piante, e che forse, silenziosamente, avevano già intuito la loro decadenza anticipata.

Non capisco come alcuni uccelli riescano ancora a volare; forse, anche Leonardo avrebbe avuto una certa difficoltà nel capirne il motivo, oggi nel 2054. Immagino la gente che ancora poteva camminare fuori per le strade, senza dover rimanere in casa per potersi ossigenare.

Era l’aria, allora, che entrava nelle nostre case ora siamo noi che dovremmo cercare di fornirla. Illusione e ricordo di un magico momento che l’umanità sta scontando su se stessa e sui suoi figli, senza per questo poterlo giustificare alla natura oltraggiata.

È giunta la rata da pagare dell’erogatore dell’ossigeno: la ditta che lo costruisce, unica al mondo, ha deciso di aumentare ancora il suo costo di esercizio.

Ho saputo, ma non posso riferire per motivi di prudenza, che alcune famiglie impossibilitate a pagare i costi sempre più onerosi, sono state lasciate morire senza ossigeno e i loro organi sono stati riutilizzati per espianti a gente in grado di pagarli profumatamente. Gli ospedali sono un lusso per i pochi ricchi, ma almeno lì si è sicuri di morire <sani>.

L’inquinamento atmosferico è stato finalmente risolto con la scomparsa definitiva dell’ossigeno.

Il colore dell’acqua assomiglia sempre più a quello del liquido di raffreddamento di vecchie automobili.

I detenuti e le carceri sono scomparsi, ma ora i veri detenuti siamo noi, chiusi nelle nostre stanze per poter respirare.

Gli anziani non vanno più nelle case di riposo, ma vengono sezionati per utilizzare i loro organi ed arti per altri scopi.

Le famiglie più agiate si sono costruite delle residenze spaziali in attesa che i tempi migliorino quaggiù; persino le chiese sono diventate impraticabili.

Di chi può essere stata la responsabilità? Di tutti o di nessuno. Il cibo che arriva per posta pneumatica, spesso è in cattivo stato ed è impensabile reclamare, è meglio sperare in quello che c’è.

Alcuni sono riusciti a procurarsi un poco di terriccio da tenere in casa, ma sono stati identificati dalle forze speciali, che hanno scoperto l’invio di foglietti incredibilmente scritti a mano: pare che siano stati scritti con una matita!

Che cosa è una matita, quindi? Come ha potuto sopravvivere fino ad oggi? Chi ha potuto nasconderla fino ad oggi?

Le massime autorità vigenti hanno stabilito, che sarà sospesa l’erogazione di ossigeno come punizione, a chiunque venga trovato in possesso di una matita.

Questo genere di punizione stranamente mi ricorda qualcosa di simile successo un secolo fa, ma allora erano usate delle camere appositamente attrezzate, dove rinchiudere alcune persone indesiderate.

L’umanità, o meglio il suo clone, riesce sempre a sfruttare a suo favore anche le proprie aberrazioni mentali, tanto che in fondo non è cambiato poi molto nel suo stile esistenziale, è solo cambiato la biosfera che la circonda.

Oggi non abbiamo più bisogno di camere a gas, poiché abbiamo creato una camera a gas globalizzata e direi che come risoluzione sia risultata geniale per un vero controllo gestionale dell’umanità.

Una volta si sentiva il respiro della terra, oggi non si sente più nemmeno il nostro. Una volta ci si chiedeva dove fosse un «Dio», oggi ci chiediamo dove siamo noi per Lui.

Una volta una matita serviva ad evocare tante fantasie, oggi essa è diventata un oggetto terroristico, anche più d’ogni <credo>, ideologico, politico o religioso.

Il prossimo riscatto dell’umanità, che non possiede nemmeno il ricordo di se stessa, forse, sarà affidato a una matita? Che cosa rappresentava veramente una matita, allora?

Ora so che è sera, perché il sole mantenendo le sue abitudini quotidiane sta ritirando i suoi raggi, mentre le nuvole sono sempre più rare e chi possiede clandestinamente vecchie registrazioni video, può rivivere i momenti in cui si apriva una finestra e si godeva degli odori e sapori della natura benigna, quando il rumore della pioggia sembrava scandire un ritmo ormai lontano. Che strana vita è diventata quella dell’inumanità!



DELLA VITA E DELLA MORTE

Da poco è iniziato il nuovo anno e anche questa volta riecheggiano sporadicamente dei botti residui di un capodanno appena consumato.

Una volta ancora sono in compagnia dei miei pensieri e sogno nuovamente un mondo di buon senso. Si è festeggiato l’ennesimo trionfo del superfluo.

Sto scrivendo i miei pensieri in questo tardo pomeriggio d’inverno, mentre si susseguono rumori di un aereo in volo, di un treno che va, il cinguettio insolito di un uccello e l’eco delle campane della messa vespertina.

Sposto le tendine della mia finestra, e osservo il crepuscolo che si sostituisce ancora una volta al giorno, mentre il latrare di un cagnolino si confonde con esso.

Le nuvole silenziose all’orizzonte della mia finestra si scuriscono lentamente, in un impercettibile e progressivo scolorirsi del giorno, mentre la luna presenta il suo conto luminoso per la notte.

Chi ha paura della luna? Pensava Lorca. Anche questa volta rumori e silenzio si sono ritrovati in un coro di sensazioni, dove però, è sempre il «silenzio» cosmico del tramonto che prevale su tutto e su tutti.

È straordinario come attraverso una sola finestra si possano scorgere due mondi: uno silenzioso e infinito, l’altro rumoroso e finito.

Mi «sovviene» Leopardi seduto sul suo ermo colle, da lì all’infinito e comprendo come una finestra cittadina, sebbene così lontana dalla mia campagna infantile, sia l’ultima soglia rimasta tra i miei pensieri e l’infinito.

Ora che la notte si è sostituita al giorno, le luci della città si sono fatte più incisive, è la luna che rappresenta il mio infinito e il mio «naufragar in questo mare», mentre continuo nei miei pensieri.

La luna, libera dallo sguardo delle nuvole, sembra un occhio luminoso puntato sull’universo, che forse non sa neppure di esserlo o invece sa tutto di sé e di noi, ma non ha «tempo» di pensarlo.

Se un giorno scoprissimo che l’universo è proprio dietro una piccola finestra, allora i miei pensieri potrebbero aspettare nuovamente?

Se scoprissi che anche la mia mente è posto al di là della piccola finestra, allora i miei pensieri dovrebbero stare con lei? Allora come potrei pensare senza la mia mente o sono proprio i pensieri a pensarla? Che strana vita quella dell’umanità. Condannata a esistere e non a morire! Il nostro futuro innanzitutto.

Ma se la morte rappresenta in pratica il nostro futuro allora la vita sarà il nostro passato.

La vita e la morte si ritrovano in un macabro balletto senza musica, dove il ritmo è scandito dai silenzi del nostro «tempo» cosmico, un «tempo» che non trova il «tempo» di misurarsi, ma solamente di narrarci.

Ecco, noi siamo una narrazione, una sua narrazione e non una sua misurazione. Come si potrebbero misurare la nostra mente o i nostri pensieri?

Come si potrebbe misurare la nostra vita se non possedessimo anche la morte? Perché continuiamo a chiamarla morte, invece di <non-tempo>?

Tutti i nostri pensieri non sono basati sulla vita, ma sulla morte. Il <pensiero> è un’entità senza «tempo», noi pensiamo notte e giorno, quando dormiamo e quando siamo svegli e abbiamo percezione del «tempo» proprio quando essi si misurano con la realtà e la nostra umanità, tanto da ridurre questa sensazione proprio quando essa si unisce con la nostra vita: il narrarsi.

Vita e umanità sembrano essere una coppia inscindibile, dove il «tempo» irrompe perentoriamente e determina il suo predominio.

La luna mantiene silenziosamente il suo sguardo su di noi, mentre incurante del nostro «tempo», esso blocca i nostri pensieri e li riduce alla vita.

Non credo che la nostra vita sia breve e la morte sia lunga, ma semplicemente che la vita sia una distorsione della morte e perché una distorsione temporale di essa: un sogno.

Il «tempo» può narrare la vita e non la morte? Chiedetelo alla luna e lei a sua volta interrogherà il sole, che a sua volta interrogherà una cometa, finché la domanda ritornerà sull’umanità che s’interrogherà su un «Dio» nostro narratore ossia «il senza tempo».

Sin da bambino, quando risiedevo nella casa dei miei nonni in campagna e vedevo in lontananza lo sbuffo del treno a vapore che passava vicino al paese, sognavo come tutti i bambini, di salire rapito per un lungo viaggio desiderato, proprio nelle immaginazioni di un bambino; sogno e desiderio che non avevano «tempo» e né il «tempo» di svilupparsi se non nella mia fantasia.

Per poi, da grande, scoprire che quel treno strumento dei miei sogni era diventato anche l’inconsapevole complice di un drammatico disegno disumano: la Shoah.

Dal «tempo» dei sogni ero passato al «tempo» delle <scoperte>. Continuare ad avere paura della luna o farmi svegliare dalla luce del mattino?

Dove si nascondeva la luna con la luce del mattino? Dove erano finiti i miei pensieri di bambino?

La luna che vedevo era la medesima d’oggi e quindi anche miei pensieri erano i medesimi?

Allora la luna è sempre stata lì e anche stasera dalla mia piccola finestra ha sbirciato con il suo occhio luminoso, e i miei pensieri sono ritornati alla luna di questo fanciullo, una luna silenziosa che di notte si mostrava e di giorno si nascondeva, incurante della vita o della morte della nostra umanità.

Si comprende perché facesse paura la luna. Poiché la morte era nella notte. É strano tuttavia, sto scrivendo i miei pensieri, sto narrando il mio pensiero, ma non sto pensando al «tempo», ma ho usato il «tempo» che mi rimane per il mio «futuro» fino alla morte per narrare i miei pensieri, che come la luna non hanno «tempo».

Ho usato il «tempo» del «tempo» che mi ha narrato, pertanto sono esistito nel «tempo» o sono esistiti solo i miei pensieri?

Su quell’ermo colle dove eri salito per «essere» e non per «esserci», forse là sono naufragati anche i tuoi pensieri, nel tuo infinito mare, senza acqua.

Sappiamo che c’è un «tempo» per tutte le cose, ma non sappiamo se esse sono nel «tempo».

Un giorno un raggio di luna bussò ad una conchiglia sul fondo del mare e una perla incuriosita si affacciò e si arrampicò lungo il raggio della luna: il nostro occhio luminoso puntato sull’universo, si era rispecchiato nel mare.

Lo stupore della perla fu grande, quando si accorse che la luna riflessa era in cielo. Chi poteva aver paura della luna?

Improvvisamente, un pesce inghiottì una perla nel buio profondo del mare. Passò del «tempo» e quel pesce fu catturato, e la perla si ritrovò in balia della luce: ma dove era finita la luna? Dove si nascondeva?

Si ritrovò imprigionata in un anello, lontana dal suo mare. Ogni giorno pregava di rivedere il raggio di luna che aveva illuminato la sua amata conchiglia.

La perla era divenuta ostaggio di un mondo che non era il suo, ma che sembrava di tutti. Perché la luna aveva ingannato proprio lei e, forse, tutte le perle?

Tutte le sere, la perla piangeva in silenzio nella nostalgia del suo mare, così tanto che si formò un mare di lacrime, dove però la luna non riuscì più a rispecchiarsi. Questo fu il castigo per la luna, che talvolta è stata vista piangere di nascosto.

Abbiamo paura della luna, ma forse lei non ha paura di noi. Abbiamo paura della morte, ma non sappiamo se anche lei abbia paura di noi.

Si parla di una società disumana. Umani si nasce e disumani, poi, si diventa. Si è mai visto un bambino disumano? Non credo. Un adulto, almeno, sì è visto.

Ciò che sappiamo della vita non serve alla morte, ma ciò che non sappiamo della morte ci serve per ri-nascere.

La ri-conoscenza è come una nuova nascita ed è per questo che la morte non ha «tempo», perché con essa noi torniamo a una nuova conoscenza ovvero alla ri-conoscenza. Non scorgo più la luna dalla mia piccola finestra.

Vedo sempre le luci, le automobili che si allontanano. Abbasso la tapparella sulla mia città e sui miei pensieri e torno a sognare d’essere vivo, finché una luce mi ricorderà che sono diventato invisibile a tutti, ma non al «tempo» narratore. La notte sognerò d’essere vivo.

Il mattino mi sveglierà la luce; urlerò, pregherò, chiamerò, ma nessuno mi ascolterà. Sarò diventato invisibile. Allora tornerò a sognare nella notte, insieme alla mia luna.


IL CROMONAUTA DELL’ANTIMATERIA

 Inverno 2014

 


Questa novella la scrissi in occasione del primo concorso letterario organizzato in università di Bergamo da parte della Luberg l’organizzazione universitaria dei laureati nell’università di Bergamo. Fu scartata! I riferimenti indiretti erano alla relatività Generale e Ristretta di A. Einstein, e il libro Atom di I. Asimov. Rimasi dispiaciuto dentro di me.

Il rimando alla storia della perla fu un omaggio alla memoria della mia mamma Margherita Basevi Mazzotti.

IL CROMONAUTA DELL’ANTIMATERIA

di Argeo Shlomo Basevi Magi

(Autore di: "INVOLUZIONISMO COSMICO: Involuzionismo a stadi nell’adultità - Pedagogia della diseducazione - Punto e « co-variazione » della freccia del tempo - Redenzione")

 

Scriveva Ovidio per il 1° di gennaio: “È un giorno fortunato quello che sorge: fate attenzione alle parole che dite, in un giorno felice si devono pronunciare solo parole felici. Non vedi come l’aria riluce di fiamme fragranti? L’oro dei templi riverbera il bagliore delle fiamme, sprazzi di luce si irradiano fino alle parti più alte degli edifici[...] Dall’alto della sua rocca Giove volge lo sguardo sull’intero universo e non vede nulla che non appartenga a Roma. Salve, giorno felice, che tu possa ritornare sempre migliore”. (Opere. Fasti e frammenti, Publio Ovidio Nasone)

In questi ultimi vent’anni la bicicletta è stata il mio inseparabile mezzo di trasporto cittadino. Così, progressivamente ho abbandonato l’uso della mia automobile, fino alla sua eliminazione, o meglio, rottamazione.

Invece, non ho mai abbandonato l’appuntamento con una colazione mattutina a base, di tea, jogurt, fette biscottate integrali, marmellata di frutta fatta in casa, una barretta di cioccolato fondente e miele.

Così, si è quotidianamente scandito il mio risveglio all’interno di una comunità cittadina, che aveva subito una forte metamorfosi sociale da quando mi aveva «adottato da bambino». La mia è stata un’adozione simbolica, dopo che la mia famiglia si era trasferita da Ascoli Piceno verso il nord Italia e dopo una permanenza di cinque anni in campagna a Cologne nel bresciano presso i miei nonni materni, si trasferirono definitivamente a Bergamo.

Come vedremo, anche il «cromosoma cosmico» Atom - così l’ha chiamato Asimov - ci ha apparentemente adottati e così noi abbiamo adottato lui: in breve siamo stati uno la conseguenza dell’altro.

Quindi, in un giorno qualunque, di un anno e un secolo qualunque, di un millennio qualunque, una mattina qualunque si era affacciata sulla città con i colori e la temperatura dell’autunno che semplicemente si riproponevano in tutta la loro varietà e fantasia.

L’aria fresca del mattino si mescolava al ricordo estivo delle ultime rondini che avevano rallegrato, e fortunatamente ancora una volta, il cielo della mia città con il loro richiamo festoso. Il rumore di un aeroplano, diretto chissà dove, disturbava l’incanto e contemporaneamente il moto aereo delle nubi di quella mattina qualunque, di quel giorno qualunque, di una vita qualunque d’autunno. Mai, comunque, nessun aeroplano potrà eguagliare la nobiltà e l’eleganza del volo delle rondini.

Qualche nube cominciava a nascondere le sembianze sfumate di ciò che restava della luna, sopraffatta dalla luce del sole immanente.

Sin da quando ero bambino lo scolorire delle foglie d’edera autunnali hanno influenzato il mio sentimento per la loro lenta e progressiva metamorfosi dal colore rosa fino ad un arancione intenso, rendendole inconfondibile nel loro genere.

Perciò, la mia simbiosi con la stagione autunnale si era identificata inesorabilmente nel colore delle foglie dell’edera, quanto quella del glicine in quella primaverile.

È strano come colori e profumi siano indelebilmente custoditi nella nostra memoria, in un magazzino biogenetico che non sbaglia mai nella sua ricerca. Simone Weil scriveva: “Le sensazioni prodotte dai colori variano da persona a persona: le impressioni sono soggettive, ognuno di noi ha il proprio sguardo sul mondo”.

Per lei essere semplici consisteva nel cercare di non rendersi conto dell’esercizio delle proprie virtù. Forse, perché la virtù sta nell’esercizio della semplicità?

Pitagora, che oltre a essere stato uno dei primi grandi matematici della storia umana, imitato ma mai ripetuto è stato anche un grande filosofo, dice: “Nel cosmo sono distribuite in parti uguali luce e tenebre, caldo e freddo, secco e umido; se di questi prende il sopravvento il caldo si ha l’estate, se il contrario è il freddo si ha l’inverno. Se invece restino in equilibrio, si hanno le stagioni più belle dell’anno, da un lato il suo fiore, che è la salutare primavera, dall’altro il declino, che è l’autunno apportatore di malanni”(Pitagora, Versi aurei, Edizioni Medusa, Milano, 2005, p.45).

I nostri sensi principali collaborano e agiscono in perfetta individualità e in costante collaborazione con la nostra percezione totale. Credo sia comune a tutti, che tra tutte le manifestazioni naturali che ci circondano e che coesistono con noi sin dall’infanzia, solo alcuni colori, profumi, suoni, restino indelebilmente legati alla nostra memoria, come simulacri della nostra esistenza. In autunno, tutte le foglie cadute sul suolo cittadino costituivano e conferivano ad esso un romantico tappeto naturale, ma subito era rimosso dalle autorità cittadine per motivi o esigenze di carattere estetico e di viabilità.

Del resto Pitagora, oltre a Isaac Asimov, mi ha influenzato sulla complementarietà tra le stagioni climatiche che noi viviamo quotidianamente, e le stagioni di un universo che, invece, sembra non esistere intorno a noi. Ed è per questo motivo che all’idea delle quattro stagionalità terrestri ho immaginato quella di quattro stadi anche nel contesto dell’universo, affinché risultassero complementari tra loro.

La genialità esoterica di Pitagora resta indiscussa ancora oggi, ma va necessariamente riportata al tempo di 2500 anni or sono, quando l’umanità cominciava nelle sue varie parti del pianeta ha prendere coscienza di esserci non solo su di un pianeta chiamato Terra, ma anche in una spazialità chiamata cosmo, sebbene fosse solo intuibile.

Raramente, invece, in città si poteva cogliere il rumore delle foglie mentre cadevano sul suolo, poiché i rumori e gli odori di una civiltà degradata nei suoi principi naturali di una sana convivenza con la natura vegetale, le si erano inesorabilmente sovrapposti.

Il ricordo correva ai giorni della mia infanzia nella casa di campagna dei nonni materni, quando in autunno sentivo il rumore delle foglie che cadevano sui prati mentre camminavo tra esse, divertendomi a spostarle con i piedi, provocando quel fruscio caratteristico che per il loro sfregamento emanava l’odore di rugiada che solo in campagna si poteva ascoltare e gustare.

Purtroppo il percorrere in bicicletta le strade della città, non consentiva di estraniarsi con la propria fantasia, poiché i mezzi a motore erano i veri padroni delle strade cittadine e non i loro autisti, i quali purtroppo sembravano ipnotizzati da semafori e abitudini, forse più vicini alla soglia della depravazione e alienazioni umane, che alla semplicità della natura. Ciononostante, bisogna essere soli per essere se stessi.

La bicicletta è ed è stato senza dubbio il mezzo di trasporto più semplice per farci sentire soli. Dai bambini, ai giovani, e dalle persone mature agli anziani, essa viene usata ormai da lungo tempo. Ma come può il tempo essere lungo o corto, se non nei nostri pensieri? Esso è lungo o corto semplicemente nella nostra immaginazione.

Simone Weil scriveva nei suoi Cahiers: “Il tessuto del mondo è il tempo, e che cos’è il tempo al di fuori del mio pensiero? Che cosa sarebbero il presente e l’avvenire senza di me che li penso? E se essi non sono niente, l’universo non è niente, infatti che cosa vuol dire esistere un solo istante? Allora potrei io non essere associato alla creazione? Ma bisogna che io pensi il tempo come un co-creatore. E come?” Allora il tempo può essere il nostro narratore?

La bicicletta, tuttavia, non sporca, non inquina e inoltre è raccomandata dai medici perché, salvo incidenti di percorso imprevisti, contribuisce a mantenerci in forma.

Metaforicamente essa ama e cerca il silenzio o quei rumori, quei suoni del paesaggio cui sembriamo essere divenuti sordi: lo sciabordare dell’acqua nei fossi, lo stormire delle fronde e il frullio di un paio d’ali. Ma tutto questo in solitudine, è proprio ciò che diventa libertà, la nostra intima libertà. La bicicletta è un momento di autoconoscenza, di autoriflessione, di autoriscoperta, il coraggio di restare solo con se stessi, almeno per un poco: quasi uno schiaffo irriverente alla moltitudine spersonalizzata, e ai suoi riti e simulacri altrettanto spersonalizzanti.

Il piacere quasi infantile di percorrere una stradina cittadina di ghiaia bianca, ma il dispiacere di scrutare al di là di una rete metallica il gran serpente grigio e asfissiante della strada d’asfalto e di veleni, o la sagoma del treno ritagliato in scuro contro l’orizzonte e che pare perdersi nella linea retta dell’infinito, in una corsa senza meta.

Forte fu la mia emozione, quando alcuni anni più tardi scoprii che quel treno giocoso era stato anche il protagonista di una drammatica realtà: la Shoah.

Intanto, ognuno è lì, con i suoi pensieri, dentro un mondo che pensa di conoscere o che sta per conoscere, perché, comunque, esso è disposto a svelarsi e a dichiararsi lentamente il suo mondo reale.

Pertanto, anche la cosiddetta vacanza diventa soprattutto rottura dell’impegno sociale quotidiano, fuga dall’economia dei giorni grigi, riappropriazione insomma di una libertà individuale o meglio di una libertà chiusa in una gabbia; allora la bicicletta diventa il destriero ideale della maggioranza di queste libertà e per questa libertà.

Vicino alla mia abitazione c’è ancora una piccola strada sterrata o comunque poco frequentata che si snoda nell’insolito silenzio della campagna cittadina residuata, dove sembra di respirare l’aria ancora fresca della mattina ed il verde dei prati rimasti è ancora frequentato da uccelli, che purtroppo, lentamente si stavano anch’essi naturalizzando con la città.

Ai cittadini frenetici, la campagna può sembrare noiosa perché si è persa l’abitudine al silenzio del nostro pensiero, ma a poco a poco una tranquillità serena ci avvolgerà e potremmo ritrovarci nei nostri pensieri sparsi, nei nostri sogni, anche nei nostri voli disattesi con l’immaginazione. Intanto essi si ritroveranno in quel microcosmo frantumato dalla quotidianità cittadina, mentre il respiro si farà più ampio e il pensiero si spargerà intorno a tutti.

Così facendo, potremmo ritrovare anche un pizzico della nostra salute mentale. Del resto, la bicicletta è un prodotto tecnologico e l’andare in bicicletta rappresenterebbe una forma bio-etica di reagire come ultimo baluardo contro l’irresponsabilità umana, e anche verso il nostro benessere, soprattutto mentale.

Ecco l’intrusione educata del silenzio, che ai giorni nostri sembra diventata una merce rara, tanto che l’idea più banale sia divenuta quella di circoscriverlo ad un ambito senza parole. Del resto, il nostro cosmo è sicuramente silenzioso, ma alle nostre orecchie, che non sono adeguate, forse, agli ultrasuoni, che, invece, vengono percepiti dagli animali.

Questo è un fatto conclamato, ma che ancora non ha trovato una spiegazione in termini evoluzionistici. Gli esseri umani, infatti, posseggono l’uso della parola e anche dell’intelletto, ma non percepiscono suoni al di fuori di una precisa scala di valori.

Talvolta ho pensato ad un essere umano che possedesse entrambe queste due possibilità, e allora ho cominciato a far volare ancora la mia fantasia.

Pertanto, chi ha inventato la bicicletta? L’architetto milanese Giuseppe Genazzini, collezionista di biciclette diceva: “Prescindendo dallo stupefacente disegno lasciatoci da Leonardo sul retro di un foglio del Codice Atlantico, non si è mai posto un vero problema”. La bicicletta, come tanti altri oggetti utili o inutili inventati dagli esseri umani, erano già presenti nella nostra memoria genetica, non come banale forma deterministica o fenomenologica, ma come necessità legate essenzialmente, come intuì genialmente Simone Weil, alla forza di gravità. Infatti lei intuì la connessione inscindibile del nostro pensiero con la forza di gravità.

Sebbene sia ancora un mistero scientifico su come la bicicletta possa rimanere in equilibrio mentre sia in movimento.

Del resto, scienza e filosofia non hanno mai discusso di biciclette e tanto meno di ciclisti, poiché la bicicletta agli inizi del XIX secolo fu anche bandita e vietata nell’area cittadina. Sappiamo che tra filosofia e scienza il dialogo non è mai stato facile, ora in discussione ci si mette un tema delicato come il rapporto tra etica e scienza e su come quest’ultima influisca concretamente sul quotidiano e sui nostri modi di vita, così con tutti i risvolti sociali e politici che il tema comporta la comprensione tra le due categorie risulta oggi ancora più difficile.

Quindi, a stimolare sia filosofi sia scienziati in materia di questioni morali, è stato soprattutto lo sviluppo recente delle scienze biologiche e l’immediata traduzione delle nuove scoperte in scelte tecnologiche applicabili all’essere umano.

Ad esempio, sia la possibilità della fecondazione in vitro sia la possibilità di agire direttamente sul Dna e sul cervello umano, possono far insorgere veri e propri dilemmi etici, in forme del tutto inedite per l’umanità.

Riemergono così, le questioni, troppo spesso rimosse, del ruolo del medico e delle scienze biomediche e diventa attuale la valutazione morale dei limiti da imporre alla loro utilizzazione. Infatti, con tutta la loro drammaticità, sono riemersi anche i dilemmi sulle scelte «estreme» dell’aborto e dell’eutanasia.

Tutto ciò spiega il nascente interesse, anche in Italia, per la bioetica, una disciplina nata negli Stati Uniti una trentina d’anni fa (di cui esiste da circa dieci anni una enciclopedia, l’Enciclopedy of Bioethics), e che si è diffusa da qualche anno in Francia e in Belgio.

Con il passaggio da una visione statica del sistema nervoso e del cervello, ad una visione cosiddetta evolutiva, si è sempre più sviluppata la pratica di agire dall’esterno su tale sistema: l’esempio più comune è rappresentato dall’uso e abuso degli psicofarmaci.

Le neuroscienze, pur contribuendo apparentemente a migliorare la qualità della vita, hanno posto al tempo medesimo problemi etici del tutto inediti sui quali filosofi, scienziati e sociologi dovrebbero concentrare maggiormente la loro attenzione.

Il premio Nobel Rita Levi Montalcini ha affermato che l’attuale ricerca neurobiologica, con il suo carattere spiccatamente interdisciplinare, potrebbe costituire le basi per un nuovo umanesimo. Sempre tra i biologi ricordiamo Lewis Wolpert che ha sostenuto, invece, la tesi secondo cui gli effetti della scienza sulla società e sui valori non sarebbero poi così evidenti.

Per Emile Zuckerland, biologo di Palo Alto (USA), invece, sono i geni a generare i valori, i quali vengono anch’essi fatti rientrare nel paradigma evoluzionista.

Un’altra ipotesi riduzionista è attribuita a Giorgio Prodi, secondo il quale l’essere umano sia «geneticamente determinato a essere libero».

Credo che le teorie riduzionistiche siano solo apparenza, quando essa si riduca alla sola superficie delle cose, senza entrare nel profondo della biologia umana; dire che l’essere umano sia «geneticamente determinato a essere libero» non significa nulla o può significare tutto: non si può essere liberi dalla genesi dalla quale siamo stati predisposti (determinismo genetico) e, quindi, è giusto parlare di libertà sociale o comportamentale (ad esempio fare male o bene), ma non si può paragonare questa libertà a qualcosa di genetico. Noi non siamo liberi affatto di andare a vivere sulla Luna o su Marte, non perché ci manchino i mezzi di trasporto, ma perché ci mancano le caratteristiche genetiche.

Il premio Nobel Ilya Prigogine, invece, non condivideva i temi dell’indeterminismo, dell’irreversibilità di alcuni fenomeni biologici e della necessità di una «nuova e natura, oltre che tra biologia, fisica e scienze umane» alleanza tra essere umano

Anche se dal punto di vista di Popper tutto il suo Poscritto alla Logica della scoperta scientifica del 1934-35 fosse teso a riesaminare alcuni dei problemi principali, sono venuti così al pettine i nodi sulla falsificabilità, sull’induzione, sull’approssimazione alla verità o vero-similitudine, tanto per citarne alcuni tra i più significativi.

Resta, come impressione generale, l’idea che Popper abbia confermato la validità del suo metodo di congetture e confutazioni, per cui noi apprendiamo da nostri errori attraverso un meccanismo di feedback continuo.

Come spesso accade per le opere dei grandi pensatori, il Poscritto di Popper ha avuto effetti sia all’esterno sia all’interno della storia della filosofia propriamente intesa.

Da un primo punto di vista, infatti, ha dato un contributo notevole a questioni non certo generali come quelle della creatività umana.

Popper era altresì convinto che i suoi argomenti fossero contro l’induzione e a favore dell’indeterminismo e fossero indispensabili per una visione libertaria e razionale dell’uomo. Per lui il libero arbitrio non sarebbe stato possibile in un universo puramente deterministico, e questo, anche se posto come corollario di tesi scientifiche, è un argomento che riguarda ancora oggi direttamente la filosofia morale e politica non è sostenibile perché, come storici e filosofi della scienza hanno variamente dimostrato, la valutazione delle teorie scientifiche da parte degli scienziati non si è dimostrata estranea da considerazioni di valori parziali.

Una teoria può essere apprezzata soprattutto per la sua semplicità, per la sua economicità, per la sua capacità di prevedere fatti nuovi, ma anche, come scrisse Heisenberg, per la sua bellezza.

Questi valori non sono meramente epistemici: nel caso della biologia, per esempio, la validità di un’ipotesi, spesso rimanda a considerazioni intorno alla legittimità morale di certi esperimenti.

Tra scienza, etica e religione sono sorti inevitabilmente conflitti, che non sono affatto un male, perche contribuiscono a far rientrare nella pratica scientifica l’elemento della responsabilità dello scienziato, che il dissidio tra scienza ed etica aveva invece eliminato.

Ma a questo punto sorge il problema di chi potrebbe imporre vincoli etici alla cosiddetta «impresa scientifica».

Un controllo esterno potrebbe anzi favorire nuove forme di oscurantismo, così un’autoregolamentazione da parte degli scienziati, poiché dovrebbero, nell’ambito della loro formazione, dare sempre più importanza alle tematiche morali.

Evandro Agazzi, che nella sua relazione su «Libertà o regolamentazione nella tecnologia e nella medicina?», sostiene che la libertà dello scienziato non sarebbe affatto ostacolata dall’esistenza di norme imposte dall’esterno, perché partendo dalla distinzione concettuale tra scienza e tecnologia, mostra quanto quest’ultima sia ormai del tutto separata dalla saggezza, infatti, la pura razionalità tecnologica, parziale e strumentale, non basta per affrontare i problemi più vasti che l’essere umano si pone maggiormente oggi.

Purtroppo quale degli esseri umani si pone questa riflessione morale: quello che va in bicicletta o quello che gliela fornisce?

Kant scriveva nella Critica della ragion pura: “[…]e nessun principio può essere assunto con certezza in una sola relazione, senza che sia stato, medesimamente, indagato nella totalità delle relazioni con l’intero uso puro della ragione”.

Le mie giornate si alternavano tra la libreria universitaria con cui collaboravo e l’Università che mi ospitava. Qualche giorno addietro avevo già notato una locandina in Università: un incontro accademico per un’ulteriore occasione nel confrontarsi su tesi e antitesi, ossia, sulla validità della logica e dell’etica, passando per la filosofia.

Era inoltre indicata una breve lista di relatori della nostra Università e non, come pedagogi, antropologi e anche cultori della epistemologia della complessità e della scienza.

Mi chiedevo in passato e tutt’oggi continuo a interrogarmi spesso, sul perché in tutti gli anni di frequentazione nell’università, non mi fossi mai imbattuto in una conferenza sulla semplicità. Si erano succeduti incontri di tutti i tipi, ma la mia opinione era che l’idea di semplicità fosse per la maggioranza degli intellettuali futile o forse imbarazzante anche per le eterogenee autorità scientifiche.

Allora, perché non scrivere una favola, che sembri rivolta ad un pubblico infantile, ma che, invece, riguardi essenzialmente il pubblico adulto.

Tutto ebbe inizio tanti miliardi di anni-luce or sono. Però, analizzeremo ancora cosa significhi il termine tutto o alcuni miliardi di anni-luce. Ciononostante, un cromonauta del Tempo-Spazio iniziava a percorrerli. Del resto come poteva un «cromosoma cosmico» avere la percezione del Tempo, che, invece, stava solo per iniziare.

«Atomos» in memoria di Leucippo o «Atom» di Asimov (L’universo invisibile, (1992) Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994, p.4), quel «cromosoma cosmico» si chiamava, e sebbene lui non lo sapesse, lo avrebbe saputo solo più tardi. Ebbene: Tempo e il Cromonoauta iniziarono insieme e continuarono il viaggio per un po’ di tempo uniti.

Probabilmente Tempo e Cromonauta sono stati due gemelli speciali, quei gemelli che successivamente avrebbero avuto il Tempo sia cosmico sia terreno a loro sfavorevole.

Perché sfavorevole? Perché l’essere umano non è ancora riuscito a combinare i valori giganteschi, quasi infiniti, di un Tempo cosmico e i valori finiti di un Tempo planetario.

Quest’ultimo a sua volta ci è sembrato il più realistico, e perciò gli esseri umani lo hanno tranquillamente preso come riferimento assoluto. Infatti il Tempo-Spazio cosmico fino a poco tempo fa è stato valutato in anni-luce.

Ecco il motivo per cui l’idea di luce è divenuta essenziale per ogni forma vivente su questo pianeta denominato Terra. Azimov, come tanti altri scienziati si era chiesto da dove provenisse la prima materia cosmica, ma anche da dove cominciasse il Tempo cosmico, o perlomeno se fosse conciliabile con quello planetario.

La condizione più plausibile nei millenni passati è stata quella religiosa, che non ammetteva incertezze al di fuori dell’idea di un creatore assoluto.

Seguiamo la traccia del primo racconto cosmico che abbiamo situato in un I Stadio temporale e spaziale, mentre, il nostro racconto terrestre, che abbiamo situato nel III Stadio, comincia alle fonti della cosiddetta nostra cultura, là dove l’idea di un giardino non fosse ancora il Paradiso, e il Paradiso non fosse sinonimo di delizia perduta, ma di luogo desiderato, da ricercare. Questo racconto si riallaccia ad un mito popolare iniziato nelle terre dei Sumeri, la cui mitologia verteva alla figura della dea Inanna, la dea Madre, dea dell’amore, regina del cielo e della terra (Massimo Venturi Feriolo, Nel grembo della vita - le origini dell’idea di giardino, Edizioni Guerrini Associati, Kepos).

Dalla fantasiosa capsula del Cromonauta quella metaforica dove la donna come vedremo racchiuderà la vita che continua come grembo femminile, il passo è stato breve.

Del resto un giardino coltivato si contrapponeva ad un campo selvatico, come idealmente la cultura è opposta all’ignoranza o la giustizia all’ingiustizia, e così via.

L’identità «donna-albero» e l’istituzione del trinomio «donna-albero-vita» hanno viaggiato nei secoli, e le si ritroverà nell’Egitto del secondo millennio, e nel mondo Ellenico, ma anche in epoche molto più recenti.

Cominciamo questa fantasiosa novella con un primo interrogativo: noi siamo i gemelli più recenti del Cromonauta? Cosa direbbe Einstein oggi, se avesse potuto identificare uno dei suoi famosi gemelli? A seguito dei suggerimenti di Asimov, potremmo ritenere Cromonauta il gemello temporale di una relatività ristretta limitata nel Tempo e nello Spazio, ristretti ad un circolo o cerchio cosmico ben definito e costituito.

Il Cromonauta possedeva la sua consapevolezza di «cromosoma cosmico» che cercava il suo corrispondente da fecondare in nome di un progresso che successivamente si sarebbe identificato come un contesto evolutivo. Egli era completamente ignaro di rappresentare, forse, la principale causa di un effetto evoluzionistico, che difficilmente si sarebbe potuto connettere ad un complementare evoluzionismo relativistico.

L’umanità a sua insaputa avrebbe creato l’idea evoluzionistica in un evidente disaccordo con la teoria della relatività generale. Ma questo sarà un argomento che Atomos affronterà più avanti nel suo Tempo.

Ma se il Cromonauta fosse stato il nostro primo gemello il quale avesse viaggiato ad una velocità molto superiore della velocità della luce, allora ci avrebbe superati e, quindi, dovrebbe ancora raggiungerci, visto che noi abbiamo una velocità relativa estremamente inferiore, ma solo dopo aver invertito la sua Freccia del Tempo.

A questo punto il nostro «cromosoma cosmico» avrebbe dovuto aspettare che tutto il nostro tempo relativo si stabilizzasse, o meglio si fermasse nei valori apparentemente più lenti del suo tempo iniziale.

Asimov conclude ovviamente con la logica della maggioranza degli scienziati: “Vi sono altri problemi; ma tutti, l’età, l’uniformità, la dis-uniformità e così via, dipendono da ciò che accadde all’inizio dell’universo nei primi istanti dopo la grande esplosione.

Naturalmente non c’era nessuno lì ad assistere, ma gli scienza ti cercano di ricostruirlo con il ragionamento in base a ciò che sanno dello stato attuale dell’universo e ciò che hanno appreso sulle particelle subatomiche”(p.241)

Noi, invece, abbiamo provato a ragionare ad absurdum, ossia, inventando un testimone e nel contempo protagonista di quell’istante iniziale, perché nelle favole è possibile ogni soluzione fantasiosa. Infatti, in ogni favola che si rispetti è la sola immaginazione a prevalere sulla ragione o meglio ancora sulla logica.

Il Cromonauta si potrebbe immaginare come un «messaggero subatomico» indipendente da ogni tentativo di coercizione esterna alla propria volontà, poiché per lui non esisteva né volontà e di conseguenza nemmeno la capacità di esercitarla, per la sproporzione delle forze in gioco sin dall’inizio.

Per questo motivo egli ci sarebbe sembrato oggi più giovane, ed essendo noi i suoi gemelli successivi, saremmo apparsi più vecchi di lui, sebbene fossimo nati contemporaneamente, e sempre in ambito cosmico.

Questi due «presenti relativi»: quello di Atom e il nostro Cromonauta, sarebbero stati coincidenti solo all’inizio. Paradossalmente il Cromonauta non poteva sapere che quel paradosso indicato da un certo Eudosso prima e Zenone subito dopo, sarebbe stato dimostrabile, probabilmente solo se la «Freccia del Tempo» si fosse idealmente invertita.

Infatti, avrebbe potuto raggiungerci, al ritorno della sua passeggiata cosmica, poiché noi ci eravamo già fermati ai confini dell’universo, avendo iniziato praticamente un’inversione di marcia che sarebbe stata definita come contrazione cosmica.

Pertanto, noi e il Cromonauta ci saremmo potuti incontrare in un anello che idealmente il cosmo aveva precostituito per tutti gli esseri umani contenuti in esso. Forse, quell’anello simbolico poteva essere quell’Eden idilliaco dove pace e equilibrio si sarebbero dovuti fondere in un unico obbiettivo: amarci gli uni con gli altri?

Nel frattempo, continuavo a muovermi e a pedalare nel mio presente e sulla mia bicicletta in città e, quindi idealmente, a passeggiare sull’universo, perché sappiamo ormai che il nostro pianeta Terra si muove nelle spazio solare e con esso tutto ciò che gli compete: luna e cose terrestri.

Pertanto, mentre la Terra si muove nel contesto solare, anche noi con essa ci muoviamo e, allora, anch’io e la ma bicicletta stavamo pedalando sull’universo.

Si potrebbe simpaticamente dire che sto andando a fare una passeggiata sull’universo, ma risulterebbe piuttosto difficile accettarla come soluzione alternativa alle nostre passeggiate in campagna, in montagna, in città o nei nostri pensieri.

Certamente ciò che ha caratterizzato e caratterizza il Cromonauta e i suoi gemellini è ed è stata la forza di gravità. Ma, Egli non sapeva cosa fosse la forza di gravità, poiché essa viaggiava insieme a lui, e la forza di gravità sarebbe divenuta l’arbitro insostituibile tra il suo Spazio e il suo Tempo. Egli stava dentro una capsula trasparente, che racchiudeva un piccolo giardino senza terra, senza fiori colorati e foglie verdi, senza acqua e vento, ma con i profumi dei frutti dello Spazio e del Tempo cosmici. Quel giardino era un Eden in miniatura, come il Cromonauta del resto? Ciononostante, come e perché una cosa infinitamente piccola può muoversi in un contesto infinitamente grande? Il Cromonauta non poteva ancora sapere che sarebbe diventato un essere cosiddetto umano, molto più grande di lui, né poteva immaginare che sarebbe stato così malvagio con sé e gli altri.

Egli non era giunto con l’idea di fare del male, e dopotutto proprio contro il suo cosmo, e, quindi, perché avrebbe dovuto fare del male proprio contro il suo gemello?

Ma, non aveva considerato che l’altro gemello avrebbe potuto farlo a lui. E quindi, per quale motivo avrebbe dovuto farlo anche lui?

Per nessun motivo che fosse valido per l’intero cosmo, perché il medesimo cosmo non potendo riconoscere o conoscere il proprio padre, avrebbe allora dovuto riconoscere la propria madre. Ma cosa significavano l’idea di un padre e una madre alcuni miliardi di anni prima che potessero esistere. Il Cromonauta era probabilmente nato prima ancora che fossero inventati il ruolo di padre e di madre. Ecco, forse, il motivo di vivere in un giardino, prima ancora di aver inventato le piante, l’acqua, l’aria, la terra.

Non sarebbe augurabile a nessuno vivere in condizioni così precarie e confuse, tanto che un istante successivo – e per istante si potrebbe intendere tutto l’universo – tutto lo Spazio si sarebbe ricongiunto al Tempo, e in quel momento soltanto si sarebbe configurato l’idea del giardino di Eden, che il Cromonauta aveva portato con sé con tanta pazienza. Ma dov’era finita la luce? Essa giunse con po’ di ritardo, ma giunse.

Allora, perché subì un ritardo così marcato? Il Cromonauta non poteva ancora vedere la luce, perché la velocità della luce era troppo lenta nel I Stadio rispetto alla velocità con cui si muoveva o espandeva anche tutto l’universo

Azimov conclude il suo libro Atom, con parole che ci sono sembrate più significative per iniziare un viaggio dagli inizi dei tempi attraverso le quattro stagioni (che ho definito anche stadi) di Atom, un «cromosoma cosmico» che, invece, ho chiamato il «Cromonauta»: “[…]Perciò alla fine non sappiamo con certezza se l’universo sia aperto o chiuso[…]La conoscenza dell’oggetto più grande da noi riconosciuto, l’universo, dipende da ciò che sappiamo degli oggetti più piccoli da noi riconosciuti, le particelle subatomiche”.(p.237)

Questo dimostra la consapevolezza umana di vivere in un gigantesco universo, ma anche l’incapacità complementare di non essere riusciti ad accertare finora la sua reale natura spaziale. Si sono susseguite, quindi, numerose ipotesi e molte altre ne saranno fatte in futuro, e seppur suggestive, probabilmente resteranno sempre ipotesi, sebbene qualcuna potrebbe risultare più plausibile.

Materia e antimateria si susseguono da qualche millennio come termini basici della nostra presenza terrestre; l’idea di «essere» e/o «non essere» è stata comunque complementare a quell’idea; spirito e/o anima hanno caratterizzato le esegesi religiose fino ai nostri giorni.

Ciononostante, la condizione più semplice è stato quello di analizzare la parte più visibile: la materia. Infatti, è da essa che sono partiti tutti i riferimenti e le riflessioni filosofiche, e per arrivare anche ad ammettere che potesse esistere qualcosa che si giustificasse attraverso un concetto dualistico, il quale si è imposto anch’esso da alcuni millenni, poiché non potremmo esistere materialmente senza una reale vitalità di opposizione della nostra biologia fisica e mentale.

Dobbiamo precisare che questa opposizione dualistica non avrebbe dovuto essere considerata come un’opposizione conflittuale, ma come complementare ad un corretto e plausibile sviluppo di tutta la nostra biologia materiale e spirituale.

Tale complentarietà biologica si vedrà potrebbe essere stata quella primigenia che il Cromonauta ha inconsapevolmente accompagnato sin dall’inizio la sua avventura, è che si è compostamente risolta alcuni miliardi di anni dopo che tutto iniziò.

Quello che sembrerà in parte implausibile sarà il motivo per cui il Cromonauta stia ritornando alle sue origini, poiché sia metaforicamente sia almeno parzialmente potrebbe giustificare che anche noi stiamo dirigendoci verso quelle origini, sicché in questa inversione spazio-temporale si potrebbe intendere ogni forma di redenzione che alcune tradizioni religiose tendono a suggerire.

Quindi, la cosiddetta capsula terrestre che stiamo occupando come ospiti temporanei, altrimenti saremmo immortali, tornerà a essere la capsula primigenia del Cromonauta.

Si può comprendere la meraviglia d’immaginare che stiamo tornando su noi stessi e, quindi, ad uno stato primigenio di «non essere», dopo essere «stati» in uno «stato» di «essere».

Inoltre, è per questo motivo che abbiamo considerato il termine antimateria, non come un’idea in opposizione alla materia, ma che fosse presente prima della materia stessa, poiché antì in lingua greca sta a significare anche «il prima», ed è perciò che l’altro termine meta sta indicare più plausibilmente «il dopo». Quindi, noi siamo stati «il dopo» di ciò che ultimamente si è definito il Big Bang, ma che ora siamo diventati «il prima» che si è invertito tanto da far divenire il nostro Cromonauta «il dopo».

Questo ipotetico scambio di ruoli è stato l’effetto di un’organizzazione cosmica più semplice da attuare ma più difficile da accettare naturalmente da noi, essendo stati condizionati dall’abuso di una logica-cognitivistica, che ha volutamente trascurato una semplicità delle risoluzioni cosmiche, che, nella loro gigantesca proposizione, ci sono sembrate insormontabili nell’azione, e perciò abbiamo preferito considerale complesse proprio per la povertà dei mezzi di cui disponiamo oggi nel confrontarci con esse.

La semplicità cosmica di attuazione è stata la principale protagonista e complice dell’inizio dell’avventura del Cromonauta, poiché si potrebbe affermare tranquillamente: complesso è ciò che non riusciamo a risolvere e semplice è ciò che si risolve da solo.

Pertanto, visto che tutto e prima del tutto ha seguito un percorso ben tracciato e definito in merito a tutte le forze che erano in campo, tutto ciò che ne è seguito fino a noi è stato di una semplicità indicibile per noi esseri umani ma commensurabile ad un disegno cosmico, che oggigiorno alcuni astrofisici han voluto definire intelligente.

Ciononostante, non mi sembra ci sia alcunché di intelligente in tale disegno, poiché l’intelligenza è una caratteristica solo umana. Il cosmo, invece, è dotato solo di una genialità extraumana, e quindi di sola semplicità primigenia, seppur gigantesca.

Il Cromonauta è stato il primo portatore di questa geniale semplicità, che ha mantenuto le sue caratteristiche peculiari, malgrado l’umanità sembri di aver fatto enormi progressi in ambito matematico, scientifico, tecnico, intellettuale, ma restano ben poca cosa di fronte alla «conoscenza» che ancora racchiude il disegno cosmico. Qualcuno continua a chiamarli segreti, ma adattandosi simpaticamente alla tradizione italiana, il Cromonauta li definirebbe i segreti di Pulcinella. Pensiamo alla cosiddetta «scoperta» del Dna.

Dopotutto Giordano Bruno l’aveva intuita senza possedere un microscopio, mentre il cosiddetto antenato primitivo di noi tutti pur non sapendo nulla del Dna ci ha permesso di trovarci oggi qui in questo angolo del cosmo a disquisire su chi siamo, perché siamo qui e da dove veniamo.

È altrettanto elementare che la nostra provenienza sia di ordine extraterrestre, poiché i nostri principi vitali si sono sviluppata sulla Terra, ma non sono nati su di essa.

Infatti, come è accettato ormai che l’origine degli oceani e in particolare l’origine della loro salinità, siano di ordine extraterrestre, e con essi, infatti, potrebbero essere giunti tutti i Cromonauti degli inizi.

A noi è toccato un preciso Cromonauta, mentre in altre parti del cosmo, gemelli del Cromonauta hanno fecondato altri precisi siti cosmici. Tuttavia, non dovremmo confondere presunti enti extraterrestri con i cosiddetti UFO, che tanta parte hanno avuto nella fantasia e letteratura fantascientifica, della quale Asimov è stato un vero maestro.

Non dimentichiamo, inoltre, che ci potrebbero essere stati anche dei Cromonauti pericolosi per la nostra razza umana, tra i quali potevano nascondersi anche virus o batteri talvolta divenuti letali per l’umanità. In breve: Cromonauti benevoli e malevoli.

Noi siamo circondati da miriadi di virus e batteri, che si manifestano ogni qualvolta l’umanità diminuisca la sue difese naturali attive, ossia, si indebolisca attraverso forme di deterioramento di stile di vita, o come potrebbe avvenire per una inconsueta e innaturale degradazione del sistema ambientale dal quale dipendiamo senza ombra di dubbio.

L’equilibrio naturale della nostra natura vegetale e terrestre ha subito senza dubbio delle grosse modificazioni nelle trascorse ere geologiche, ma sempre nel rispetto di un orologio terrestre, che si era inevitabilmente sincronizzato a quello cosmico.

A causa della nostra dissennata violenza perpetrata in particolare nel XX secolo contro la Natura, abbiamo scombinato quest’orologio che ha funzionato sincronicamente per miliardi di anni, ma che potrebbe essere responsabile di grandi problemi e dolori per gli esseri umani.

Il Cromonauta è stato una testimonianza cosmica indispensabile per la nostra percezione attuale e futura, dove testimonianza e percezione si fondono in una monade intellettiva che giustifichino insieme una condizione terrestre che ha visto partecipare inevitabilmente l’intero cosmo alla formazione e costituzione della nostra Terra, come sosteneva in particolare Italo Calvino. Il Cromonauta è la testimonianza più pura contro la nostra vanità terrestre di ritenerci evoluti e di conseguenza capaci di poter dominare anche lo Spazio circostante, sebbene non saremo mai in grado di dominare il Tempo cosmico, poiché ne siano, altrettanto inevitabilmente, la sua narrazione e non la sua misurazione.

Egli non era provvisto di nessun orologio, anche se quell’orologio cosmico (di cui la relatività di Einstein ha simpaticamente supposto una staticità relativa ad un cosmo altrettanto statico o stazionario, come si suole definire oggi) fosse inutile per lui.

Per intenderci, egli era all’interno di un disegno cosmico che avrebbe definito un Tempo che sarebbe divenuto un orologio che scandiva una Freccia del Tempo che scorreva all’indietro, poiché la velocità iniziale di espansione dell’universo è stata tale da rendere ciechi a ogni forma di analisi del Tempo. Infatti, la velocità di espansione era così alta da rendere invisibile la medesima velocità della luce; infatti, a noi l’universo circostante sembra scuro e buio, mentre invece è estremamente luminoso, proprio perché noi non riusciamo a fissare la luce con i nostri occhi, se non in particolari condizioni come quelle che si sono armonizzate sulla Terra.

Pertanto, il Cromonauta ha viaggiato ad una tale velocità iniziale che ha anticipato e custodito nella sua capsula ogni forma vitale presumibile (non cosiddetta futura, poiché il futuro all’interno della capsula era già presente sotto forma di passato; ogni attimo dell’espansione cosmica era naturalmente un attimo di una Freccia del Tempo che sarebbe dovuto ritornare inevitabilmente al suo passato cosmico e quindi alla sua contrazione, dove il futuro all’esterno della capsula si sarebbe sostituito progressivamente al passato) affinché ai nostri occhi sembri rappresentare un ritardo temporale cosmico dovuto alla velocità della luce, che essendo divenuta molto più bassa di quella di espansione, ci abbia raggiunto proprio quando già fosse iniziato la progressiva contrazione dell’universo e la complementare variazione della Freccia del Tempo.

Ecco perché secondo la teoria della Relatività Generale, il Cromonauta e noi siamo: il primo gemello che ci ha raggiunto alla velocità della luce, invece, noi come esseri umani siamo il secondo gemello che dovrebbe sembrare più vecchio di lui. Ovviamente moltiplicando ogni gemello per il numero totale degli esseri umani, abbiamo un’umanità più vecchia di tutti i Crmonauti che ci abbiano raggiunto e che, invece, riteniamo erroneamente più vecchi perché venuti dal passato. L’errore paradossale sta nel fatto che noi ci riteniamo più giovani del Cromonauta perché venuti idealmente dopo di lui.

Infatti, Voltaire sosteneva che ogni discendente dopo di lui fosse più vecchio, perché nato dopo di lui, mentre noi riteniamo più giovani coloro che sono nati dopo di noi.

Potrebbe sembrare un gioco di prestigio antropologico, ma esso nasconde una verità che difficilmente si possa trasferire ai giorni nostri senza ricevere una scomunica virtuale di eresia scientifica. Dopotutto, l’abitudine di considerare una Freccia del Tempo in un senso univoco ci costringe a sommare un Tempo planetario che invece andrebbe sottratto al Tempo cosmico totale.

Solo in questa condizione spaziale si potrebbe accettare l’idea di un ritardo cosmico temporale, che il Cromonauta portava insieme a sé. Quindi, un ritardo che sottraeva Tempo al Tempo cosmico, invece, di sommarlo. Questo per un’evidente ragione di etica cosmica, poiché avrebbe anche potuto sfiorare l’idea di un’immortalità fisiologica, se non si fosse incontrato con il proprio gemello terrestre, che aveva aspettato con tanta impazienza la conferma di non essere inutile rispetto ad un disegno cosmico.

A questo punto eravamo in due, un binomio fisico-animistico divenuto reale perché la realtà si era fatta materia, la quale aveva il Cromonauta come il suo primo antenato, un testimone di quell’antimateria, che come abbiamo visto, aveva semplicemente e naturalmente anticipato la materia vera e propria. Quindi, un dualismo tra antimateria e materia che sono divenute complemenari solo per un Tempo determinato. Anche qui egli si sarebbe dovuto incontrare con un supposto determinismo antropologico.

Quindi, tornando all’idea dualistica del numero due, ad un certo punto si è passati ad un’idea di insiemi e quindi al suo doppio, ossia, il numero quattro.

Il fatto che entrambi siano di valore pari è del tutto plausibile in ambito matematico, ma diventerebbe più difficile in un ambito metafisico.

L’interrogativo più importante è stato, è e sarà sempre: il Cromonauta dove e cosa era prima di iniziare la sua avventura cosmica? Materia o antimateria, o entrambe? Un elemento è incontestabile: noi e tutto ciò che ci circonda siamo materia.

Si evince naturalmente che la materia in senso universale ha uno scopo primigenio, che malgrado i nostri sforzi di introdurla in ambiti fenomenologici, essi non hanno dimostrato altro che: «siamo» e che «ci siamo». Anche se oggi possa sembrare banale, è stato importante «scoprire» che «siamo», ma i dubbi sono nati quando abbiamo cominciato a interrogarci sul «dove siamo»: sulla Terra o sull’universo?

Il «perché» di entrambi tali interrogativi per ora lo procastiniamo, poiché di essi si è parlato molto, ma si è detto molto poco, in questi ultimi secoli.

Perciò partiamo dal presupposto di sintetizzare l’avventura del Cromonauta in quattro Stadi fondamentali, anche perché il numero quattro è un numero progressivo comune e stabile nel contesto terrestre, come vedremo, per quanto riguarda le stagioni climatiche terrestri che hanno consentito e facilitato la nostra nascita e sopravvivenza.

L’idea di semplicità (della quale Asimov è sempre stato un convinto sostenitore) è stato il motivo principale, sebbene nel contempo disarmante e gigantesco, con cui queste peculiarità metereologiche si siano progressivamente imposte nel sistema planetario terrestre.

Esso non è dovuta al caso né alla opera degli esseri umani, ma dal fatto che lo Spazio e il Tempo cosmici, abbiano sufficientemente rallentato l’opera di espansione del Tempo e dello Spazio, fino a giungere ad un punto d’inversione del loro percorso, che il Cromonauta intraprese proprio miliardi di anni fa.

Tale inversione, compresa tra la fine dell’espansione e l’inizio di una contrazione dell’universo (Argeo Basevi Magi, Involuzionismo cosmico, CELSB Editoriale, Bergamo, 2007) conteneva e rappresentava l’idea di un universo statico, che Einstein aveva supposto, ma che poteva essere confermata solo ad una condizione cosmica, la quale analizzeremo meglio nel corso del suggestivo viaggio cosmico del Cromonauta.

Quindi, il nostro Cromonauta-Atom viaggiò nella sua capsula per un certo periodo temporale ad una velocità molto superiore di quella della luce ordinaria, anche perché essa viaggiava insieme a lui all’interno della capsula. Pertanto, ecco spiegato il motivo di questo ritardo della presenza della luce, che dovette aspettare che tutto l’universo rallentasse per poter muoversi più liberamente in ambito cosmico.

Egli aveva anticipato e sperimentato ciò che sarebbe diventato il concetto di una teoria quantistica. La luce nel II Stadio finalmente raggiunse il suo stato ordinario, che le consentiva di spostarsi ad una velocità con un valore minimo sotto il quale nessun essere umano avrebbe potuto sussistere e sopravvivere. Infatti la velocità della luce come noi la conosciamo e sperimentiamo quotidianamente non dovremmo pensarla come il valore massimo raggiungibile in ambito cosmico, ma come la soglia minima sotto la quale, non avrebbe potuto raggiungerci dove siamo, ossia, alla estrema periferia dell’universo.

Il Cromonauta l’ha custodita per diversi miliardi di anni-luce, per poi inseguirla nel suo II Stadio, che ha caratterizzato i primi due stadi dell’universo. In effetti potremmo pensare a delle stagioni del nostro universo che sono state probabilmente quattro, come le stagioni che si sono affermate sul nostro pianeta.

Infatti, le foglie che si scolorivano e si mostravano in una gamma di sfumature nei colori autunnali, avevano caratterizzato un momento qualunque, di un giorno qualunque, di un ciclista qualunque, coincidenti di un momento cosmico altrettanto qualunque, dove probabilmente il nostro Cromonauta, avrebbe trovato un pizzico di tranquillità nel giardino che aveva portato con sé, quel giardino come io potevo già vivere e godere nella mia città.

E se la terra fosse divenuta la capsula definitiva come quella che era partita insieme al Cromonauta? Allora, egli dove sarebbe ora?

Probabilmente essendo così piccolo sarebbe impossibile localizzarlo esattamente (come avrebbe intuito Heisenberg), ma lui potrebbe localizzare noi, e, quindi, sarebbe sulla terra insieme a noi. E se addirittura fosse proprio dentro di noi?

Il Cromonauta, naturalmente, come avviene per lo gocce del mare che sono innumerevoli e non si possono distinguere nella loro unità, era una monade che costituiva un’unità per se stessa, ma la prima di tante monadi che avrebbero fecondato il cosmo intero.

Egli allora guidava una schiera di infinitesimi che a loro volta avrebbero costituito un intero: era il principio di ogni ordine matematico, che poi avrebbe costituito l’idea degli insiemi.

Egli comunque nella sua consapevole-inconsapevolezza, è stato il probabile iniziatore di qualcosa di gigantesco, del quale noi abbiamo successivamente solo percepito una piccolissima parte: ma perché dovremmo ricordarci di questo nostro antenato, forse, solo per assegnargli le cause di ciò che noi siamo diventati: materia?

Ma il Tempo allora cosa significava per la materia o viceversa? Certamente l’anti-materia non poteva significare anti-Tempo, altrimenti noi ci troveremmo orfani del Tempo, ed essere orfani del Tempo vorrebbe dire essere orfani di noi stessi e, quindi, come se l’antimateria fosse orfana della materia e non viceversa. Ma essere orfani vuol dire aver perso i genitori, e allora avremmo perso anche il Cromonauta?

Ma, chi erano i suoi genitori? Egli ci ha generati, ma chi ha generato lui? Se oggi potesse incontrarsi con noi chissà quale commento potrebbe emergere, poiché noi siamo diventati genitori di noi stessi, e questo ci ha assegnato il potere di considerarci padroni di noi stessi. Forse, un Atom che è ancora in noi ed è ancora noi, ma noi allora chi siamo?

Per questo tentiamo di inventare un virtuale incontro con tutti gli «Atomos» che sono sopravvissuti in quello che è rimasto o si è definito del cosmo. Immaginiamo allora il cosmo come un grande oceano, dove minuscole gocce di acqua sono protagoniste di un grande contesto di materia. Entrambi costituiscono, comunque, materia.

Egli era ovviamente un «essere» infinitamente piccolo in un contesto infinitamente grande: ciò che univa il piccolo e il grande era l’infinito-finito.

Il Cromomauta iniziò il suo percorso di «cromosoma cosmico» quasi inconsapevolmente, senza una meta precisa, poiché non conosceva la sua provenienza, né possedeva un’attrezzatura adatta per una passeggiata nel cosmo di quella durata. Egli non usava astronavi, come si racconta nelle favole di fantascienza attuali, poiché non erano ancora state inventate.

In effetti non aveva bisogno di un’astronave, poiché anche gli astri non erano stati inventati. Come poteva immaginare che la sua astronave si sarebbe chiamata Terra, né tantomeno che il suo Spazio si sarebbe chiamato Cosmo. Così il primo bagliore di luce che venne da un soffio iniziale, creò un sole come simbolo del potere: una luna della femminilità come un giorno simbolo d’attività e una notte della paura. Il Cromonauta nulla poteva sapere di tutto ciò che noi oggi crediamo di sapere sull’amicizia e sull’etica, sebbene noi pretendiamo di sapere che Atomos potrebbe essere anche un Cromonauta della materia.

Tornando brevemente alla mitologia, nelle vicende narrate nel poema di Inanna si individuavano i principi che illustrano anche altrove la nascita del mondo e che ritroveremo nei racconti cosmogonici mediterranei, passati attraverso il mondo Cananeo-Fenicio.

In uno dei primi episodi della Genesi Sumera, Inanna salva l’albero Uluppu, nato dall’unione tra il Signore delle acque e la Regina dell’oltretomba; strappandolo alle acque dell’Eufrate dice: “Pianterò quest’albero nel mio giardino sacro”.

L’albero, che altrimenti sarebbe morto, fu portato in un recinto protetto, là dove era possibile difendere la vita, là dove la vita poteva anche continuare. Ma dove era iniziata veramente la vita? In quel primitivo recinto si stiparono molti dei significati attribuiti al giardino, quelli che di associazione in associazione erano diventati sempre più numerosi.

Più avanti nel racconto sapremo dei doni che generano o i rami recisi, di Uluppu, i frutti diventano anche alimento dello spirito. Saranno quindi alberi già colmi di simboli quelli che si troveranno nel giardino che il Signore piantò in Eden secondo una tradizione che cominciò dopo secoli di radicato culto della vegetazione. L’albero della vita viene «piantato» e non «creato», accanto a quello della conoscenza del bene e del male.

Qui l’albero primigenio si sdoppia, e nel duplicarsi divide vita da conoscenza, mentre in quello che potremmo identificare come filone pagano permane l’identità giardino - grembo della vita, fertilità, fecondità, luogo di unione sacra, recinto della Grande Madre, e anche culla di Eros -.

Da quella prima divisione si delineano due modelli di interpretazione che paiono essere decisamente antagonisti. Da una parte avremo la tradizione biblica in cui la vita del giardino è legata all’ascolto e alla sottomissione alla parola e alle leggi del Signore; il giardino quindi è là dove opera il giusto e il buono; nel giardino è rimasta la vittima Abele, mentre Caino, il fuggiasco condannato è la figura che meglio rappresenta il Paradiso perduto «secondo i canoni di una cultura della colpa elevata alla massima potenza».

Ci sono passi dell’Antico Testamento in cui vengono additati allo sdegno i giardini idolatri, legati ai riti pagani della fecondità, dove l’idea di natura si mostrava con un potere di rigenerazione spontanea.

Quelli che furono poi detti «i giardini di Adone» (che potremmo successivamente metaforicamente indicare come quelli del Cromonauta) suscitavano la riprovazione del profeta Isaia che li additava come esempio di felicità caduca. Eppure oggi pare bellissima una tradizione che ci fa credere che il gesto dedicato a ogni creatura in vaso possa avere i caratteri di un rito, un vaso di fiori è come un piccolo altare davanti al quale si celebra il nostro timore verso il buio, l’inverno, la morte, la nostra fame di vita.

Nei templi sumero-babilonesi si facevano germogliare certe piante in vasi dedicati alle divinità femminili, legate alla figura della Grande Madre, il vaso era simbolo di fecondità e fertilità. Da quei vasi, ai «Giardini di Adone», divinità di origine orientale, pare correre una tradizione ininterrotta. Va ricordato che Adone fu amato contemporaneamente da Afrodite e da Persefone: una parte dell’anno la passava con l’una sulla terra, l’altra con la seconda agli inferi; è quindi facile vedere la sua figura legata al ripetersi del ritmo delle stagioni.

Le «Adonie» feste che godevano di pessima reputazione presso gli Ateniesi si distinguevano per il rito di seminare in vasi, piante la cui crescita veniva forzata (ed era quindi effimera) con molte annaffiature e prolungate esposizioni al sole. Era questa una operazione affidata alle donne che in questa fase si identificavano con Afrodite.

Nel giorno in cui nacque Afrodite fu concepito Eros: fu concepito in un giardino da Poros e Penia, come dire dall’ingegno (intelligenza) e dalla fame insaziabile, le stesse forze che regolano ancora oggi profondo rapporto, anche con più duraturi giardini.

Cosa si può pensare dei poeti che amano sorprendere ogni comprensione della maggior parte dei loro lettori? Come, quello che un giorno disse l’usignolo all’allodola: “Amica mia, tu ti levi così in alto per non essere udita”. Così Gotthold Ephraim Lessing è riuscito a rendere «esopica» persino l’esigenza stessa di chiarezza e di essenzialità. Che è poi quella che anima le sue deliziose Favole in tre libri (ed. Sellerio), dove pavoni e cornacchie, donnole e serpenti, rane e usignoli, vespe e carogne, cavalli e asini, come in ogni favola che si rispetti, ci fanno «la morale», dicendo pane al pane, senza fronzoli o false profondità.

Come fece il pastore in un’altra favola che ha ancora per protagonista l’usignolo - quasi un alter ego del pensatore illuminista Lessing - questa volta alle prese col gracidare dei falsi moralisti. «Da un bel pò ha smesso di cantare l’usignolo. E allora in una tiepida sera di primavera un pastore lo esorta a far sentire la sua voce. Ahimè - risponde lui lamentoso - non le senti le rane? Non le senti come gracidano? Si son fatte tanto chiassose che perdo ogni voglia di cantare”[…]Le sento eccome - replicò il pastore - Ma è proprio il tuo silenzio che mi condanna a sentirle”.

Tornando alla fiaba cosmica del Cromonoauta, tutto ebbe inizio «semplicemente» circa una dozzina di miliardi di anni-luce or sono. Naturalmente, dobbiamo intenderci su cosa significhi il termine «tutto» o «alcuni miliardi di anni-luce». Tuttavia, un Cromonauta del Tempo-Spazio cosmici iniziava a percorrerli. Del resto, come poteva un «cromosoma cosmico» avere la percezione del Tempo, che, invece, stava solo per iniziare anche per tutti i suoi gemelli cosmici?

Cominciamo questa fantasiosa novella con un primo interrogativo: noi siamo i gemelli più recenti del Cromonauta? Mi chiedo simpaticamente, cosa risponderebbe Einstein oggi, se avesse potuto identificarsi in uno dei suoi famosi gemelli?

A seguito dei suggerimenti di Einstein, potremmo ritenere il Cromonauta il gemello temporale di una relatività ristretta limitata nel Tempo e nello Spazio, ristretti ad un circolo o cerchio cosmico ben definito e costituito.

Il Cromonauta possedeva la sua consapevolezza di «cromosoma cosmico» e, forse, cercava il suo corrispondente da fecondare in nome di un progresso, e che successivamente a sua insaputa, si sarebbe identificato come un contesto e riferimento evolutivo.

Egli non era naturalmente colpevole di rappresentare, forse, la principale causa di un effetto evoluzionistico, che difficilmente si sarebbe potuto connettere ad un complementare evoluzionismo relativistico.

Immaginiamo che egli fosse stato il nostro primo gemello e avesse viaggiato ad una velocità molto superiore della velocità della luce, allora ci avrebbe superati e, quindi, dovrebbe ancora raggiungerci, poiché noi possediamo una velocità relativa estremamente inferiore a quella della luce.

Infatti, fino a quando il primo gemello non avesse invertito la sua Freccia del Tempo, allora non sarebbe stato possibile incontrare il suo secondo gemello. In breve nella nostra fiaba, i due gemelli ideali stanno ritornando insieme al punto di origine del Cromonauta. A questo punto il nostro «cromosoma cosmico» avrebbe dovuto aspettare che tutto il nostro «tempo» relativo si stabilizzasse, o meglio si fermasse nei valori teoricamente più lenti del suo Tempo iniziale.

Invece, noi esseri umani abbiamo provato a ragionare ad absurdum inventando un testimone e nel contempo protagonista di quell’istante iniziale, proprio perché nelle fiabe è possibile ogni soluzione fantasiosa. Infatti, in ogni fiaba che si rispetti è la sola immaginazione a prevalere sulla ragione o meglio ancora sulla logica.

Oggi, un nostro Cromonauta si potrebbe immaginare come un «messaggero subatomico» indipendente da ogni tentativo di coercizione esterna alla propria volontà, poiché per lui non esisteva né volontà e di conseguenza nemmeno la capacità di esercitarla, per la sproporzione delle forze in gioco sin dall’inizio della sua passeggiata.

Per questo motivo egli ci sarebbe sembrato oggi più giovane, ed essendo noi come esseri umani i suoi gemelli successivi, saremmo apparsi più vecchi di lui, sebbene ci fossimo auto-fecondati contemporaneamente, ovviamente inteso in un «tempo» contemporaneo cosmico.

Infatti, avrebbe potuto raggiungerci al ritorno della sua passeggiata cosmica, poiché noi ci eravamo già fermati ai confini dell’universo, avendo iniziato praticamente un’inversione di marcia che sarebbe stata definita successivamente, e quindi oggi, come contrazione cosmica.

Pertanto, noi e il Cromonauta ci saremmo potuti incontrare in un anello che idealmente il Cosmo aveva precostituito per tutti gli esseri umani contenuti in esso.

Forse, quell’anello simbolico poteva essere l’Eden idilliaco dove pace e armonia si sarebbero dovuti fondere in un unico obbiettivo: amarci gli uni con gli altri?

Nel frattempo, continuavo a muovermi e a pedalare nel mio «tempo» presente proprio sulla mia bicicletta in città e, quindi idealmente, a pedalare e passeggiare sull’universo, perché sappiamo ormai che il nostro pianeta Terra si muove nelle spazio solare e con esso tutto ciò che gli compete: la luna e le cose terrestri.

Si potrebbe simpaticamente dire che sto idealmente e contemporaneamente facendo una passeggiata sull’universo; ma risulterebbe piuttosto difficile accettarla come soluzione alternativa alle nostre passeggiate in campagna, in montagna, in città o nei nostri pensieri.

Certamente ciò che ha caratterizzato e caratterizza il Cromonauta e i suoi gemelli è ed è stata la forza di gravità. Ma, il Cromonauta non poteva sapere cosa fosse la forza di gravità, poiché essa viaggiava insieme a lui e conseguentemente sarebbe divenuta anche l’arbitro insostituibile tra il suo Spazio e il suo Tempo.

Egli era partito dentro una capsula trasparente, che racchiudeva un piccolo giardino senza terra, senza fiori colorati e foglie verdi, senza acqua e vento, ma con i profumi dei frutti dello Spazio e del Tempo cosmici. Quel giardino era un Eden in miniatura, come il Cromonauta?

Ciononostante, come e perché un messaggero infinitamente piccolo avrebbe potuto e dovuto muoversi in un contesto infinitamente grande?

Il Cromonauta non poteva ancora immaginare che probabilmente sarebbe diventato un essere, cosiddetto, umano molto più sviluppato di lui, né poteva immaginare che sarebbe divenuto così malvagio con sé e gli altri.

Egli non era giunto con l’idea di fare del male, e dopotutto proprio contro il suo cosmo, e, quindi, perché avrebbe dovuto fare del male proprio contro il suo gemello?

E non poteva nemmeno considerare che l’altro gemello avrebbe potuto fare del male a lui. Quindi, per quale motivo avrebbe dovuto farlo anche lui stesso? Per nessun motivo etico che fosse valido per l’intero Cosmo. Lo stesso Cromonauta non potendo ri-conoscere o conoscere il proprio padre e la propria madre, avrebbe allora potuto far del male anche a loro?

Ma cosa significavano l’idea di un padre e una madre alcuni miliardi di anni prima che loro potessero esistere. Il Cromonauta era probabilmente il solo ha possedere l’idea del ruolo di un padre e di una madre, e per questo aveva ricevuto il compito di recapitare il messaggio di quell’idea in tutto l’universo.

Ecco, forse, il motivo di viaggiare in una capsula dove c’era anche l’idea di un giardino, prima ancora che fosse inventato il ruolo delle piante, dell’acqua, dell’aria, e della terra.

Non sarebbe augurabile a nessuno vivere in condizioni così precarie e confuse, tanto che un istante successivo – e per istante si potrebbe intendere tutto l’universo – tutto lo Spazio si sarebbe ricongiunto al Tempo, e in quel momento soltanto si sarebbe configurata anche l’idea del giardino di Eden, che il Cromonauta aveva portato con sé e con tanta pazienza.

E dov’era finita la luce? Anch’essa, infatti, giunse con po’ di ritardo, ma giunse necessariamente. Allora, perché subì un ritardo così marcato?

Il Cromonauta non poteva ancora vedere la luce, perché la velocità della luce era troppo lenta rispetto alla velocità con cui si muoveva o si espandeva anche tutto l’universo.

Tuttavia, dopo un poco di «tempo» qualunque, è iniziato un nuovo anno qualunque e anche questa volta riecheggiavano sporadicamente dei botti residui di un cosiddetto capodanno qualunque appena consumato.

Una volta ancora io ero in compagnia dei miei pensieri in un giorno qualunque e sognavo nuovamente un mondo di buon senso. Dopotutto, si era festeggiato l’ennesimo trionfo del superfluo. Stavo scrivendo i miei pensieri in un tardo pomeriggio di un inverno qualunque, mentre si susseguivano i rumori di un aereo in volo, di un treno che andava, il cinguettio insolito di un uccello e l’eco delle campane di una messa vespertina.

Spostavo nuovamente le tendine della mia finestra, e osservavo il crepuscolo che si sostituiva ancora una volta al giorno, mentre il latrare di un cagnolino si confondeva con esso. All’orizzonte della mia finestra, le nuvole silenziose si scurivano lentamente, in un impercettibile e progressivo scolorirsi del giorno, mentre la luna presentava il suo conto luminoso per la notte. Chi ha paura della luna? Pensava Garcia Lorca.

Anche questa volta rumori e silenzio della città si sono ritrovati in un coro di sensazioni, dove però, era sempre il «silenzio cosmico» del tramonto che prevaleva su tutto e su tutti.

È straordinario come attraverso una sola finestra si possano scorgere due mondi: uno silenzioso e infinito, l’altro rumoroso e finito. Mi sovviene Leopardi seduto sul suo ermo colle, da lì all’infinito e comprendo come una finestra cittadina, sebbene così lontana dalla mia campagna infantile, sia l’ultima soglia rimasta tra i miei pensieri e l’infinito.

Ora che la notte si è sostituita al giorno, le luci della città si sono fatte più incisive, è la luna che rappresenta il mio infinito e il mio «naufragar in questo mare», mentre continuo nei miei pensieri. La luna, libera dallo sguardo delle nuvole, sembra un occhio luminoso puntato sull’universo, che forse non sa neppure di esserlo o invece sa tutto di sé e di noi, ma non ha il «tempo» di pensarlo.

Il ricordo tornava alla collana di perle della mia mamma, e nel medesimo tempo un raggio della mia luna bussava ad una conchiglia sul fondo del mare e una perla incuriosita si affacciava e si arrampicava lungo quel raggio: il nostro occhio luminoso puntato sull’universo si era rispecchiato nel suo mare.

Lo stupore della perla fu grande, quando si accorse che la luna riflessa fosse in cielo. Chi poteva aver paura della luna? Improvvisamente, un pesce inghiottì la perla nel buio profondo del mare. Passò del «tempo» e quel pesce fu catturato, e la perla si ritrovò in balia della luce: ma dove era finita la luna? Dove si nascondeva?

Si ritrovò imprigionata in un anello, lontana dal suo mare. Ogni giorno pregava di rivedere il raggio di luna che aveva illuminato la sua amata conchiglia. La perla era divenuta ostaggio di un mondo che non era il suo, ma che sembrava di tutti. Perché la luna aveva ingannato proprio lei e, forse, tutte le perle?

Tutte le sere, la perla piangeva in silenzio nella nostalgia del suo mare, e così tanto che si formò un mare di lacrime, dove però la luna non riuscì più a rispecchiarsi.

Questo fu il castigo per la luna, che talvolta è stata vista lacrimare di nascosto. Abbiamo paura della luna, ma forse lei non ha paura di noi.

Noi, invece, abbiamo paura della morte, ma non sappiamo se anch’essa abbia paura di noi. Si parla di una società disumana. Invece, umani si nasce e disumani, poi, si diventa. Si è mai visto un bambino disumano? Non credo. Un adulto, almeno una volta, sì è visto.

Ciò che sappiamo della vita non serve alla morte, ma ciò che non sappiamo della morte ci serve per ri-nascere.

La ri-conoscenza è come una nuova nascita ed è per questo che la morte non ha «tempo», perché con essa noi torniamo a una nuova conoscenza, ovvero, alla ri-conoscenza.

Non scorgo più la luna dalla mia piccola finestra. Vedo sempre le luci, le automobili che si allontanano.

Abbasso la tapparella sulla mia città e sui miei pensieri e torno a sognare d’essere vivo, finché una luce mi ricorderà che sono diventato invisibile a tutti, ma spero non al Cromonauta messaggero. Il nostro grande occhio luminoso sull’universo, è diventato il faro di approdo del nostro Cromonauta?

Forse, un giorno qualunque in un «tempo» qualunque, seguendo il raggio di luna egli busserà alla mia piccola finestra e così ci ricongiungeremo come due antichi gemelli che non abbiano nulla da dirsi, ma possano guardarsi negli occhi e trasmettersi con il silenzio del pensiero quel messaggio cosmico atteso da lungo «tempo» e da entrambi.

Perciò, durante la mia notte sognerò d’essere vivo. Un mattino mi sveglierà la luce. Urlerò, pregherò, chiamerò, ma nessuno mi ascolterà. Sarò diventato invisibile! Allora tornerò a sognare nel silenzio della mia notte e a ri-nascere insieme alla mia luna.

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