venerdì 2 maggio 2014

Come funziona il segreto di Stato e quali sono i problemi

Come funziona il segreto di Stato e quali sono i problemi da risolvere per la pubblicità dei documenti

http://www.aldogiannuli.it/2014/04/come-funziona-il-segreto-di-stato-2/
Sino a questo punto, la questione della pubblicità dei documenti custoditi negli archivi “scottanti” è stata trattata molto superficialmente dai mass media, che hanno alimentato l’idea che si tratta solo di spostare qualche migliaio di fascicoli, dagli archivi dei servizi a quelli accessibili al pubblico (Archivio Centrale di Stato in primo luogo): due firme ed è tutto risolto. Gli stessi studiosi, abituati al materiale normalmente presente negli Archivi di Stato, immaginano che le stesse procedure e soluzioni possano essere adottate anche in questi casi. Le cose non stanno così e purtroppo la questione è molto più spinosa dal punto di vista tecnico ed aggrovigliata da quello giuridico.
Sfugge a molti la natura di questi documenti che hanno insieme carattere politico ed investigativo, tendenzialmente si sviluppano per connessione reciproca e spesso permangono nell’archivio corrente anche molti anni dopo l’evento da cui sono originati. Mi spiego meglio: in un tribunale il fascicolo di un processo è completato quando la sentenza passa in giudicato ed è indipendente da ogni altro fascicolo processuale. I mattinali di Prefettura possono benissimo essere raggruppati cronologicamente e raccolti per anno, così come i “telegrammi” dalle legazioni diplomatiche. Ma, i fascicoli dei servizi, tanto personali quanto per organizzazioni o materia, sono spesso richiamati in corrispondenze che si protraggono per molti anni e continuano ad essere alimentati continuamente per moltissimo tempo.
Il fascicolo del caso Moro è un “permanente” nell’archivio corrente, così come quello sulle Br ed anche fascicoli finiti nell’archivio di deposito (magari il “personale” di qualcuno deceduto anche venti anni prima), di tanto in tanto, sono “richiamati” per consultazioni ed attività di riscontro.
In secondo luogo, saltuariamente capita che un organo di polizia giudiziaria abbia scambi con polizie di altri paesi, ma non è frequente. Mentre, nel caso dei servizi, lo scambio informativo con i “servizi paralleli” degli altri paesi è prassi costante e quasi quotidiana; per cui questo tipo di carteggi hanno una dimensione internazionale quantitativamente ragguardevole e questo pone problemi particolari.
In terzo luogo, la documentazione ordinaria è coperta dall’usuale riservatezza della Pubblica Amministrazione, ma, normalmente, non include documenti coperti da segreto di Stato, ne consegue che l’intero fascicolo ha caratteri omogenei e può passare dall’archivio di deposito a quello pubblico (salvo le solite procedure di scarto), mentre il fascicolo di un servizio di informazione e sicurezza contiene documentazione coperta da segreto politico-militare con vario grado di riservatezza (a crescere: riservato, riservatissimo, segreto e segretissimo). Più avanti vedremo le conseguenze di questo.
Ci limitiamo a queste scarne considerazioni per far intendere quanto siano particolari questo tipo di documenti e quanto sia malagevole applicare la normativa ordinaria. Soprattutto, questa è una materia nella quale ad intervenire saltuariamente ed in modo disorganico si fanno più danni che altro: è necessario prima di tutto acquisire una visione di insieme del problema e delineare un intervento organico.
1. Il quadro normativo.
E’ evidente che la questione più delicata (ma non l’unica, come vedremo) è quella degli archivi dei servizi di sicurezza (attuali Aisi, Aise, Dis) e dei corpi di polizia che hanno costante corrispondenza con essi (attuali Sca-Sco del Min. Interno, Comando generale della Guardia di finanza, e –problema nel problema- comando generale dell’arma dei Carabinieri). Ed il primo problema, preliminare a tutti gli altri, è mettere ordine nella normativa in materia che è vasta, ridondante e contraddittoria.
Sinteticamente, per quel che riguarda i servizi di intelligence le principali norme da considerare, oltre che gli articoli 262 e 263 Cp, sono:
- Regio decreto 11 luglio 1941 n 1161 “Norme relative al segreto militare”
-  la “circolare Miceli” novembre 1973
-la l. 24 ottobre 1977, n. 801, prima riforma organica dei servizi segreti
-direttiva del Pcm 30 luglio 1985  “tutela del Segreto di Stato
-il Dpcm 10 marzo 1999 n 294
-la l. 31 luglio 2005 n 155 per il contrasto del terrorismo
-la l. 3 agosto 2007 n. 124, seconda riforma dei servizi segreti
-il Dpcm 8 aprile 2008 n. 90 (norme sul “segreto di Stato e diritto di accesso”)
Si tenga presente che le normative succedutesi nel tempo non hanno abrogato le precedenti che, pertanto, sono tutt’ora operanti (compreso il Regio Decreto 1941). Anche la riforma del 1977 è in parte sostituita in parte riassorbita nella successiva del 2007. E qui si segnala l’opportunità del riordino in un testo unico che elimini le attuali incoerenze e faccia chiuarezza.
Ai fini della nostra materia, è di rilievo anche la l.7 agosto 1990 n 241 relativa alla trasparenza del processo amministrativo.
Di particolare rilievo, ai fini della pubblicità dei documenti sono il Dcpm 94/1999 (governo D’Alema su ispirazione del sen. Francesco Cossiga), e alcune norme della l. 124/2007. Cominciamo da primo che, nell’art. 4, stabilisce la segretazione per 50 anni dei documenti dei servizi di informazione e sicurezza  indicati nei par. a e b del precedente art. 2. Si badi che la norma non fa riferimento specifico a documentazione classificata ma genericamente  a “documenti dei quali la Segreteria generale del Cesis, il Sismi ed il Sisde siano comunque in possesso in relazione all’attività informativa e di sicurezza svolta in ambito nazionale ed internazionale, la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”. Quindi la semplice declassifica dei documenti, per decisione dell’autorità politica o per decadenza automatica della categoria di riservatezza, non comporta affatto la loro automatica consultabilità. Se il Dcpm in questione non viene abrogato o quantomeno modificato opportunamente, il trasferimento di documenti dei servizi presso Archivi pubblici è illegale.
2. La legge 2007 e la questione dei regolamenti.
C’è poi la questione dell’armonizzazione con la l. 124/2007 che ha complicato il problema più di quanto non lo abbia risolto. Quando la legge venne promulgata, molti sottolinearono la novità dell’introduzione della temporaneità del segreto per la durata di 15 anni (peraltro, prorogabili per altri 15) e del contestuale passaggio alla classifica inferiore (da segretissimo a segreto, da segreto a riservatissimo e da riservatissimo a riservato) ogni 5 anni. Ma le cose sono molto più complesse.
Sino alla riforma del 2007, la classifica di riservatezza (fissata dalla circolare Miceli del 1973) coincideva con l’espressione del segreto di Stato ed era apposta dall’ente originatore. L’opposizione del segreto di Stato da parte del PdC è sorta solo successivamente e come prassi sfornita di un quadro normativo di riferimento, in opposizione a richieste della Magistratura (caso Giannettini, Fiat ecc.). Si badi che all’epoca dei primi casi la linea di demarcazione fra attività di intelligence e attività di polizia non era affatto demarcata nettamente, e la qualifica di Alta autorità per la sicurezza nazionale non era attribuita al PdC ma al capo del Servizio militare, che era l’unico a concedere il Nos (facoltà poi estesa anche al direttore dello Uaarr).
Il quadro normativo che attribuiva la qualifica di Alta autorità al PdC, regolamentando di conseguenza l’eventuale opposizione del segreto alle richieste della Magistratura venne solo con la l. 801/1977 (ora art 1 della riforma del 2007). Dunque la prassi ha anticipato la normativa che, peraltro, non introduceva affatto una distinzione fra classifica di riservatezza (apposta dall’ente originatore) e opposizione del segreto di stato (decisa dal Pdc) che era solo una conferma rafforzativa della prima.
La normativa del 2007, invece, introduce questa distinzione, stabilendo, che il Pdc ha il potere di “apporre” il segreto di Stato e confermare l’eventuale opposizione alla Magistratura (Art. 1; poi art. 39 c. 4-5-6). Dunque, il Pdc, può decidere autonomamente di apporre il segreto che si aggiunge a copertura della classifica di riservatezza decisa dall’ente originatore. Il guaio peggiore è che l’apposizione del segreto di Stato da parte del Pcm non coincide temporalmente con la classifica di riservatezza decisa dall’ente originatore e può sopraggiungere in qualsiasi momento (ad esempio, per poter essere opposto ad una richiesta della magistratura). Considerato che la durata del segreto di stato è di 15 anni (prorogabili per altri 15), ne consegue che, un documento segretissimo del 1999, dovrebbe essere consultabile in questo 2014 (sempre che non si disponga il prolungamento per altri 15 anni), ma se il Pcm decide di apporre il segreto di Stato, prima che decada la classifica di riservatezza, il documento resta segreto per altri 15 anni ulteriormente prorogabili per altri 15. Il che può significare 15 anni di classifica di riservatezza usuale + 15 di proroga della riservatezza, + 15 di segretazione di stato ordinaria + 15 di eventuale proroga. Totale 60 anni: se ne parla nel 2059. Anche se il Pcm può decidere (come ha fatto Renzi) la cessazione del vincolo anche prima della scadenza (art. 39 c. 9).
Questa distinzione, fra segreto di stato e classifica di riservatezza, ha l’effetto di raddoppiare i segni del segreto, disgiungendone la durata temporale. Peraltro il testo presenta anche punti di interpretazione controversa.
Infatti, per quel che riguarda la documentazione precedente alla legge, l’allora Sismi sostenne che il termine trentennale partisse dalla data di pubblicazione della legge. Quindi, ad esempio, per un segretissimo del 1964, se ne dovrebbe parlare nel 2022, sempre che non si proroghi per altri 15 anni.
Per di più, mentre la legge è relativamente chiara per quanto riguarda il diritto di accesso degli “aventi causa” (fra i quali non sono considerati né giornalisti né studiosi), lascia insoluto il punto del trasferimento della documentazione declassificata agli archivi pubblici. Sul punto non c’è alcuna automaticità e neppure si precisa a quale archivio debba essere rimessa la documentazione. Ad esempio, nel caso del servizio segreto militare, il destinatario dovrebbe essere l’Acs, quello dell’Ufficio storico dello Stato maggiore esercito o l’Aise dovrebbe dotarsi di un suo archivio come ha fatto la Pdc?
Tutti questi nodi avrebbero dovuto trovare il loro scioglimento in alcuni degli otto regolamenti attuativi previsti dalla stessa legge. In effetti, un primo regolamento venne con il Dpcm 8 aprile 2008 deciso dal governo Prodi e, il 25 giugno dello stesso anno, il Presidente del Copasir Francesco Rutelli annunciò che stavano per arrivare al suo comitato altri 5 regolamenti già approntati dalla Pcm, mentre si prevedeva anche una modifica del primo, la cui applicazione aveva presentato degli “aspetti aperti”. Dopo, con la formazione del IV governo Berlusconi la cosa è andata perdendosi di vista e non è chiaro quale sia lo stato dell’arte. Non sarebbe male se sul punto giungesse un chiarimento da parte della Presidenza del Consiglio.
3. Declassificare gli archivi, i fascicoli o i singoli documenti?
Un primo ordine di problemi è come procedere relativamente all’unità archivistica da prendere in considerazione. La soluzione più accettabile è quella di trasferire all’Acs –o altro archivio, come quello dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito- l’intero contenuto di un archivio, per evitare scorporazioni sempre dannose, non fosse altro per il mutare nel tempo delle categorie di classificazione dei fascicoli che si perderebbe con trasferimenti a pezzi. In questo modo agì il Governo D’Alema nel 1999, trasferendo all’Us-Sme gli archivi delle “disciolte strutture” che, in sostanza, erano gli archivi delle tre sezioni del Sim durante la guerra che venne trasferito in blocco all’Usme.
E’ la soluzione migliore che potrebbe essere scelta al Ministero dell’Interno per l’ Ufficio Vigilanza Stranieri, l’Ufficio Affari Generali e Riservati, poi solo Riservati, il Sigsi e l’Ucigos, mentre per il servizio militare per il Sifar ed il Sid. Il problema che potrebbe porsi è se alcuni di questi fascicoli siano stati alimentati successivamente dalle strutture posteriori, ma, si potrebbe separare i fascicoli per ente originatore.
Un problema nel problema è quello dei fascicoli “permanenti” (ad es Piazza Fontana, Brescia, caso Moro, Brigate Rosse ecc.) che sono ancora nell’archivio corrente.
Una seconda scelta potrebbe essere quella di declassificare e versare fascicolo per fascicolo: si perde l’unità dell’archivio, ma soprattutto nasce l’enorme problema di quando avvenga la “compiuta giacenza”.
La terza soluzione, è declassificare ed inviare all’Acs documento per documento, in ordine cronologico a blocchi annuali, man mano che cessino le classifiche di riservatezza. Cioè spacchettando i fascicoli, cosa che farebbe inorridire qualsiasi archivista o storico, perché il contesto diverrebbe incomprensibile.
4. Compiuta giacenza: 15, 20, 30 anni. Ma da quando?
Un secondo e connesso ordine di problemi è, appunto, quello di fissare la compiuta giacenza. Sento spesso parlare con grande leggerezza di termini di tempo precisi: 15 anni, 30 anni, 50 anni… Si va bene, ma a partire da quando? Nel caso dei tribunali penali la norma è semplice: a 70 anni dalla sentenza definitiva, salvo anticipazioni autorizzate dal Presidente della Corte d’Appello di competenza. Nel caso delle amministrazioni ordinarie (Prefetture, Ministeri, enti locali ecc.) il comportamento usuale è che un fascicolo vada in archivio di deposito dopo che è restato “inattivo” per 5 anni, poi dopo una durata variabile a seconda dell’Ente (in generale 30-40 anni dall’invio in deposito) viene mandato all’Archivio di Stato. Ma nel caso dei servizi la cosa è molto meno semplice, proprio per le caratteristiche di questo tipo di archivi che abbiamo accennato all’inizio. Ovviamente, il termine a quo non può essere quello del fatto: ad es. il caso Moro è del marzo 1978, ma il fascicolo è ancora attivo, perché ancora oggi spuntano nuovi testi sulle cui rivelazioni si indaga. E, quindi, anche se sono passati 36 anni dal fatto, non potremo mandare il fascicolo all’Acs.
La prassi consuetudinaria (giacenza più o meno prefissata nell’archivio di deposito) non è applicabile al nostro caso, perché, come si è detto, i fascicoli contengono documenti con diversa classifica di riservatezza (riservato, riservatissimo, segreto e segretissimo) che decadono progressivamente ogni 5 anni al livello sottostante, ma questo significa che, se il fascicolo è pronto, ma c’è un documento successivo con qualifica di “segreto”, occorre attendere la graduale decadenza di questo ultimo, che può comportare anche altri 10 anni di giacenza, durante i quali il fascicolo, nella sua interezza, resta fermo anche al di là del termine previsto. Quanto ai segretissimi, va detto che sembra che molte amministrazioni abbiano l’uso di custodirli in fascicoli separati che rappresentano un altro problema a sé. Personalmente posso dire che in 10 anni di esame sistematico degli archivi più diversi (Interno, Sismi, Sisde, Cogeguarfi, Esteri, Pdc ecce cc.) di segretissimo me ne è capitato solo uno, probabilmente finito per sbaglio nel fascicolo ordinario che stavo vedendo. Mentre mai mi fu mostrato qualche fascicolo di segretissimi che si favoleggiava essere presso le inaccessibili segreterie di sicurezza coperte da segreto Nato. Forse. O forse no. Fate voi.
Inoltre, i fascicoli dei servizi di sicurezza possono essere sempre richiamati dal deposito ove il caso si “riaccenda” ed, in quella circostanza il computo del tempo per rimandarlo in deposito ricomincia da zero. E’ raro ma capita.
Quindi, se vogliamo tenere unito il fascicolo, non resta che aspettare che il suo intero contenuto sia declassificato, il che può variare anche di molto. Oppure, possiamo mandare all’Acs la parte già declassificata e poi, man mano che il resto dei documenti perda la qualifica di riservatezza, mandare le successive integrazioni. Ma con l’effetto di sovraccaricare di lavoro gli archivisti (ed all’Acs sono già al limite del collasso) e di disorientare lo storico che non saprebbe mai se, da un momento all’altro, possa giungere un declassificato che smentisce i documenti precedentemente esaminati. Faccio un esempio: alla scadenza del 2015 viene consegnato un documento, poniamo sul caso Moro, nel quale emerge una particolare pista investigativa o, comunque, ci sia una notizia sconosciuta e di notevole valore. Ma gli accertamenti successivi (magari posteriori di qualche anno) appurano trattarsi di notizia falsa ed il documento che lo attesta viene consegnato all’Archivio due o tre anni dopo il precedente. Se lo storico (o il giornalista) prendesse in considerazione quella notizia si esporrebbe sicuramente al rischio di una pessima figura professionale, ma anche a quello di una querela o, quantomeno di una vertenza civile per “danno all’immagine”. Ed allora, per essere sicuri di non incorrere in una valutazione frettolosa, quanto tempo occorrerebbe aspettare? Anche perché il visitatore dell’archivio non sa se e quando finirà la trasmissione dei documenti. Dovrebbe aspettare la conclusione del fascicolo, sempre che gli venga comunicato che esso è ormai completo.
Nel frattempo quel materiale sarebbe semplicemente inutilizzabile. A quel punto, tanto vale, aspettare la compiuta giacenza e mandare l’intero fascicolo una volta che tutti i documenti siano pronti per l’invio, senza stare a spacchettare i fascicoli che è una barbarie inaudita.
Il problema è poi ulteriormente aggravato dalla doppia classifica di segretazione, introdotto dalla riforma del 2007, di cui abbiamo detto. Per cui, in caso di apposizione successiva (anche molto successiva) del segreto di stato, occorre riprendere il conto della giacenza dalla data in cui è apposto il segreto. E l’intero fascicolo resta bloccato.
5. La commissione di sorveglianza e di scarto.
Altro problema che rende ardua la trasmissione dei fascicoli ad un archivio pubblico è la selezione cui deve essere sottoposto. Questo è previsto anche per le amministrazioni ordinarie, presso le quali, appunto, vengono formate commissioni di sorveglianza e di scarto composte da funzionari dell’ente e da operatori dell’archivio di Stato.
Qui, al solito, le cose sono più complicate: trattandosi di documentazione classificata che richiede il Nos, appare difficile che gli archivisti dell’Acs (che, per quanto ci è noto, non hanno il Nos) possano partecipare alla commissione di scarto. Questo, ovviamente, determinerebbe la situazione inopportuna di una commissione tutta composta da membri “interni” all’amministrazione interessata. In realtà, si come per il personale civile che legato da contratti di appalto e fornitura, si potrebbe concedere il Nos agli archivisti dell’Acs chiamati a far parte della commissione. Ma il Nos è concesso Ufficio centrale per la segretezza dipendente dal Dis acquisito il parere dei direttori di Aisi ed Aise (art. 9 c. C) che, in questo modo, potrebbero cercare di bloccare (o eventualmente revocare) qualsiasi persona sgradita. Questo metterebbe gli archivisti in una condizione di sudditanza psicologica nei confronti del servizio interessato.
Per evitare questa situazione, sarebbe opportuno svolgere il lavoro sotto la sorveglianza del Copasir che, con provvedimento legislativo ad hoc, potrebbe designare gli archivisti dotandoli di Nos allo stesso atto della nomina e senza parere dei servizi.
Altro punto da chiarire, in proposito, è la definizione  a priori dei criteri per lo scarto, per evitare eccessi “ripulitorii” . Alcuni criteri sembra oggettivi e poco o per nulla aggirabili:
a. materiale classificato proveniente da servizi stranieri del quale non si ottenga la declassifica (per lo meno sino a quando non si pervenga ad una intesa internazionale che semplifichi il tutto, dichiarando la decadenza automatica dopo un congruo numero di anni)
b. materiale derivato o riguardante organi costituzionalmente protetti (Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale) a meno che l’organo interessato non conceda l’autorizzazione
c. documenti che riguardino dati sensibili (di ordine sanitario, sessuale, situazioni personali o familiari ecc.) di singole persone protette dalla normativa sulla privacy.
Ma qui la casistica potrebbe diventare molto complessa per il rischio di coinvolgere eredi e discendenti delle persone di cui si parla nei documenti (ad esempio: se un documento informa che il tale è figlio naturale del tal altro e questo non sia precedentemente noto, il discendente potrebbe ritenere lesa la sua privacy. Ancora peggio nel caso di notizie che possano incidere sull’immagine di imprese commerciali, finanziarie o industriali (il problema riguarda in particolare la Guardia di Finanza).
Altro caso delicato è quello di documentazione che, anche a distanza di anni, possa dar luogo ad un contenzioso giudiziario che, per di più, potrebbe coinvolgere anche lo Stato (un cui organo potrebbe essere stato a conoscenza di una condotta delittuosa, ad esempio di natura commerciale, ed aver lasciato che essa si consumasse: l’aspetto penale sarebbe estinto per prescrizione, ma questo non esaurirebbe gli affetti civili).
Delicatissimo sarebbe il caso di operazioni all’estero condotte da aziende di Stato di concerto con i servizi segreti del paese: che fare se dalla documentazione emergesse una qualche pratica corruttiva (del tipo Eni-Petromin, per intenderci) compiuta con l’assistenza di un servizio di informazione e sicurezza? E’ probabile che questa materia richieda una sistemazione legislativa ad hoc (magari con tempi di desegretazione più lunghi o con l’apposizione di clausole restrittive su parti del documento come, ad esempio, i nomi di persona, così come accade negli Usa), per gli effetti che potrebbe determinare ancora nel presente.
Tutta materia da definire, per quanto possibile, prima dell’inizio dello spoglio, per evitare querelle infinite che bloccherebbero i lavori.
6. La questione del segreto Nato.
C’è poi da considerare la spinosa questione del segreto Nato. Il problema maggiore è che tutto questo ha riflessi anche interni per la presenza delle “segreterie di sicurezza” normalmente protette dal “segreto Nato” che, ovviamente, è sottratto alla legislazione nazionale.
Ci sono casi (pensiamo al caso Moro ed ancor più al caso Dozier, ma anche ai problema della Grecia dei colonnelli o allo scambio armi-petrolio con la Libia nel 1972) nei quali è presumibile che il carteggio fra servizi italiani-americati e Nato sia stato fittissimo. Ovviamente non è cosa che possa essere regolata dalle istituzioni italiane ed occorre la questione nelle sedi Nato: se si può benissimo accettare che in materie così delicate possa esserci un tempo di decantazione più lungo che in altri casi, è invece inaccettabile l’idea dell’eternità del segreto (ed oggi non è lontanamente prevista alcuna data di scadenza per questi carteggi).
Questo è un problema da affrontare e sciogliere perché l’attuale situazione invaliderebbe in buona parte lo sforzo per introdurre una maggiore trasparenza nell’amministrazione. D’altro canto è un problema che, prima o poi, si porrà e non solo in Italia: lo storico del futuro che vorrà fare una storia della Nato (cosa si immagina di qualche interesse per capire la storia mondiale dal 1950 in poi), stanti così le cose, ha a disposizione solo i comunicati ufficiali, la stampa e le memorie dei segretari generali. Un po’ pochino direi.
E questo ci porta al problema degli organi internazionali (Bce, Ue, Fmi, Banca Mondiale, Wto, ecc. ecc. e persino Onu) nessuno dei quali prevede pubblicità dei suoi atti. E’ immaginabile una storia della nostra età ignorando questi enti o scrivendone senza accesso alle rispettive fonti d’archivio? Non sarebbe il caso di promuovere un’iniziativa degli storici a livello internazionale o, quantomeno, europeo?
7. Gli “altri” archivi.
Ma anche in Italia il problema non si limita agli archivi dei servizi segreti. In primo luogo gli organi di polizia (sia Ps che Carabinieri che GdF) che non versano agli archivi di Stato, posso attestare che, almeno per Ps e Gdf si tratta di archivi di straordinaria importanza (soprattutto la Finanza per  la storia di impresa e dell’economia italiana è irrinunciabile).
Poi c’è un’altra istituzione di prima grandezza come la Banca d’Italia. E, parlando di banche si arriva anche alle tre banche Iri sino ai primi anni novanta: non sarebbe il caso di accedere anche a questi archivi che, in fondo, sono stati emanazione pubblica?
Gli archivi della Ppss sono andati in gran parte dispersi (soprattutto quello dell’Iri, per quel che se ne sa), ma l’Eni esiste ancora e Finmeccanica ha ereditato diverse aziende Efim e, si immagina, i relativi archivi. Se ne può parlare?
Poi ci sono gli organi costituzionalmente protetti (Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, Presidenza delle Camere) che in parte si sono dati archivi pubblici, ma con una documentazione assai modesta e di non rilevantissimo interesse storico (atti pubblici, comunicati ufficiali, protocollo ecc). Beninteso: non è detto che sia rimasto molto, stante l’uso dei politici di ogni ordine e grado di portare via con sé le carte della segreteria particolare (o segreteria politica) e, con queste, anche un bel pezzo del resto (come si ebbe modo di costatare nell’archivio di Aldo Moro, dopo il suo rapimento). In particolare al Quirinale è probabile che molta parte sia scomparsa così, ma pur sempre dovrebbe essere rimasta altra documentazione interessante, magari poca, ma comunque da non buttar via.
8. Chi paga? E se digitalizzassimo i documenti?
Tutto questo, peraltro, comporta un lavoro considerevolissimo, con un costo per il quale si renderebbe necessaria una legge di copertura. E, in questo quadro, converrebbe anche valutare l’ipotesi di avviare un lavoro di scansione del materiale informativo in formato digitale. Questo, ovviamente, comporterebbe una spesa in più, anche non lieve, ma che, in prospettiva, potrebbe rivelarsi fonte di considerevole risparmio. Infatti, si consideri in primo luogo la situazione degli spazi dei vari archivi di Stato (a cominciare dal centrale) che sono già oggi al collasso e che non si capisce come potrebbero assorbire di colpo un’ ingente e sempre maggiore massa cartacea aggiuntiva al flusso ordinario. Occorrerebbe procedere all’allestimento di nuove sedi, scaffalature ecc. mentre, l’informatizzazione consentirebbe di inscatolare e custodire buona parte della documentazione cartacea in depositi di deposito meno costosi da realizzare. Inoltre, c’è un problema specifico di cui si parla sempre troppo poco: i documenti prodotti dal dopoguerra in poi, hanno supporti molto più deperibili del passato e, per di più, si usano inchiostri molto più aggressivi. Visitando gli archivi dei servizi e dei corpi di polizia, ho personalmente constatato come una parte significativa di documenti (in particolare telex, fotocopie su carta chimica ecc.) è già attualmente illeggibile o in via di disgregazione (ricordo un registro, peraltro, di epoca fascista, che letteralmente si polverizzò non appena l’addetto lo prese in mano). Per cui la digitalizzazione sarebbe una misura di salvataggio, senza della quale perderemmo automaticamente una massa di documenti crescente nel tempo. E questo senza calcolare il vantaggio per la consultazione e la riproduzione dei documenti stessi (si pensi all’economicità di una riproduzione digitale rispetto alla normale fotocopia). Dunque, una spesa oggi aggiuntiva, ma destinata a rientrare abbondantemente nel tempo, sino a diventare una fonte di economia.
Aldo Giannuli

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