martedì 30 luglio 2013

Cossiga: il complotto è una forma della politica

Il Caso Moro

I 55 giorni - Aldo Moro - La storia vera

IL CASO MORO

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“Governare equivale non a dire la verità, ma a far credere e a convincere gli altri di pensare quel che si vuole” (Nicolò Machiavelli, Il Principe).
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“Mostrati come innocente fiore, ma sii serpente che si annida sotto” (William Shakespeare, Macbeth).
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“La storia è ricca di complotti e il complotto è una forma della politica” (Francesco Cossiga).
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È uscito in questi giorni l’ultimo libro del magistrato Ferdinando Imposimato sul caso Moro (I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia. Perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera, Roma, Newton Compton, 20013), che si basa sulle carte processuali, sui verbali, le testimonianze, gli interrogatori, le sentenze, i Documenti riservati del Ministero della Difesa e degli Interni, gli Atti e i Documenti delle Commissioni parlamentari e della “Commissione Stragi” guidata da Libero Gualtieri.
L’Autore è stato il giudice istruttore che si è occupato del caso Moro ed ha scritto poi numerosi libri su questo affare (Doveva morire, Milano, Chiarelettere, 2008; La Repubblica delle stragi impunite, Roma, Newton Compton, 2012).
L’ultimo suo libro aggiunge al penultimo, “vecchio” di appena un anno, la testimonianza di due militari sardi, che da due settimane (dopo soli sette giorni dal 16 marzo 1978, data del rapimento di Moro[1]) tenevano sotto stretto controllo la prigione del Politico italiano e stavano per fare irruzione nella sua prigione in via Montalcini n. 8 interno 1 il 7 maggio del 1978, due giorni prima della sua uccisione, ma furono fermati da un ordine del Ministero degli Interni, come vedremo dettagliatamente poi.
Imposimato per 30 anni (dal 1978 al 1998) ha creduto fermamente alla responsabilità esclusiva delle Brigate Rosse (BR) nella morte di Moro (I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia. Perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera, Roma, Newton Compton, 20013, p. 13)[2]. Ma, col passar del tempo, ha cominciato a scorgere alcune anomalie nell’operazione dell’eventuale salvataggio di Moro e quindi è giunto a rivisitare la cronaca giudiziaria e a rivedere il suo giudizio sulla storia di quei tempi cambiando radicalmente opinione.
Per esempio alcuni inquilini di via Montalcini n. 8, ove Moro era rinchiuso all’interno 1, raccontarono che alcuni agenti dell’Ucigos erano sopraggiunti lì subito dopo la notizia della morte dell’Onorevole democristiano e dopo aver scoperto il carcere non si intervenne per arrestare i carcerieri e assassini di Moro facenti parte delle ‘BR’: Gallinari, Moretti e Braghetti (Ib., p. 16).
Cominciarono ad apparire sempre più consistenti le ombre di Servizi segreti stranieri (Kgb[3], Bnd tedeschi, Cia, Mossad e Sas inglesi) e si appurò che i Servizi segreti italiani non peccarono per incapacità, ma per ordini ricevuti da Stati stranieri molto potenti ed influenti sulla politica dell’Italia degli anni 70/80 (p. 18).
L’antefatto all’uccisione di Moro inizia, secondo Imposimato, con il 1963 quando Moro in Italia e Kennedy in Usa avevano iniziato una politica che non piaceva ai poteri forti: Massoneria e particolarmente la Loggia P2, la Mafia, la “Destra” atlantica con i Servizi segreti rispettivi, Cia, Fbi, Sismi e Gladio (p. 25)[4].
Per esempio, Moro aveva continuato la politica filo-mediorientale, mediterranea ed anti atlantica di Enrico Mattei riguardo al petrolio dell’Eni; inoltre aveva fatto coniare all’inizio del 1978 le 500 lire cartacee dallo Stato italiano  e non dalla Banca d’Italia; infine la sua posizione riguardo al problema palestinese non era esattamente filo-israeliana. Fu così che Moro entrò in collisione con Henry Kissinger[5] (pp. 28-29), che ha consigliato la politica estera del Presidente americano Richard Nixon dal 1968 al 1973 ed è stato Segretario di Stato dal 1973 al 1976.
Inoltre Moro fu coinvolto con Craxi e Andreotti nell’affare dell’ Argo 16, che esplose in volo colpito, si dice, da un missile dell’aeronautica israeliana sopra i cieli di Marghera, perché l’aereo era servito per riportare in Libia un gruppo di terroristi arabi, accusati di aver progettato un attentato alle linee aeree ‘El Al’ di Israele. La loro liberazione, dopo essere stati arrestati dalla polizia italiana, avvenne su richiesta di Yasser Arafat, che in cambio si era impegnato a non compiere attentati in Italia. Sennonché il 17 dicembre del 1973, i terroristi di Abdu Nidal, antagonisti di Arafat, compirono una strage all’aeroporto di Fiumicino uccidendo 30 passeggeri della ‘Pan Americam’. I terroristi riuscirono ad ottenere il decollo di un aereo della Compagnia tedesca Lufthansa, che atterrò a Kuwait City. Il volo verso il Kuwait coinvolse Moro, allora Ministro degli Esteri, che naturalmente si attirò l’antipatia sempre più crescente degli Usa e di Israele, che vedevano in lui e poi in Craxi un filo-arabo, mentre Andreotti grazie al suo senso delle sfumature e distinzioni praticò una politica di “equi-vicinanza” (termine coniato da lui e che rispecchia in toto la sua personalità) e non di equi-distanza, come lo si accusava, verso Israele ed il mondo arabo e se la cavò con soli 10 anni di processi (p. 125).
Il braccio destro di Kissinger, Steve Pieczenik, il vero cervello o “cuore pulsante” del Comitato che gestiva la Crisi del caso Moro, ha infatti ammesso: “Sono stato io a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro allo scopo di destabilizzare la situazione italiana. […]. Io son riuscito con la mia strategia a creare una unanime repulsione contro i terroristi delle BR e allo stesso tempo un rifiuto verso i comunisti [erano i tempi del “Compromesso storico” teorizzato da Enrico Berlinguer[6] dopo il golpe cileno di Augusto Pinochet nel 1973 e che stava per essere realizzato da Moro e da Berlinguer stesso, nda]. Il prezzo da pagare è stata la vita di Moro. […]. Ho dovuto sacrificare la vita di un individuo per la salvezza di uno Stato [è il famoso “principio di Caifa”, come lo chiamava Geremia Bentham, nda]. È stato un colpo mortale preparato a sangue freddo. La trappola era che loro [le BR, nda] dovevano uccidere Aldo Moro. […]. Cossiga era un uomo che aveva capito molto bene quali fossero i giochi[7]. Io non avevo rapporti con Andreotti, ma immagino che Cossiga lo tenesse informato. […]. Assieme a Cossiga abbiamo preso una decisone estremamente difficile. Ma la decisione finale è stata di Cossiga e, presumo, anche di Andreotti” (p. 8)[8].
Due militari sardi – Antonio Arconte e Franco Cancedda – hanno avuto una parte rilevante nel caso Moro. Dalle loro testimonianze, che confermano e chiariscono quanto si era saputo da altre fonti, esce un quadro agghiacciante.
Antonino Arconte, un giovane militare della Marina italiana e appartenente al Sid e a Gladio,  aveva ricevuto a La Spezia il 6 marzo del 1978 una busta sigillata dal Ministero della Difesa per portare un messaggio segreto, datato 2 marzo del 1978, all’agente finale, il colonnello del Sismi Stefano Giovannone a Beirut. Arconte non avrebbe dovuto aprire il plico sigillato, ma consegnarlo all’agente intermedio, il tenente colonnello Mario Ferraro non appena giunto a Beirut il 10 marzo 1978. Tuttavia, Arconte lesse il messaggio assieme a Ferraro. Quest’ultimo dopo averlo letto (ed averne parlato, purtroppo[9], con altri colleghi)  lo consegnò all’agente terminale, il colonnello Giovannone, il quale tornò in Italia per difendere la vittima designata, mentre Arconte e Ferraro, divenuti oramai amici stretti, si diressero in Egitto e mantennero l’originale che avrebbero dovuto distruggere (pp. 136-137). Il 28 febbraio del 1993 Arconte subì un attentato, ma riuscì a salvarsi, mentre – come si è visto – il 6 luglio del 1995 a Ferraro fu spezzato l’osso del collo.
La lettera parlava del sequestro Moro. La cosa il 6 marzo, circa 10 giorni prima del fatto, non destò gran meraviglia nel giovane marinaio, che ebbe l’accortezza di non parlarne con nessuno sino al 2012, mentre Mario Ferraro pagò con la vita l’imprudenza di averne parlato troppo con i colleghi a sequestro avvenuto.
Imposimato quando ascoltò la confessione di Antonio Arconte rimase meravigliato e si chiese se essa fosse autentica o fosse un falso per depistare e squalificare le sue ultime acquisizioni storiche sul sequestro dell’onorevole democristiano.
Se la lettera era autentica, lo Stato italiano non aveva fatto nulla per evitare il sequestro di Moro, e, dopo il sequestro, avrebbe continuato a non far nulla per evitare la sua uccisione.
Imposimato  che dubitava della sincerità di Antonio Arconte, iniziò a ricredersi nel 2002 dopo aver parlato con l’ex ammiraglio Falco Accame, il quale era convintissimo che la lettera era autentica, che Moro poteva essere salvato e lo aveva dichiarato all’Ansa in una nota del 16 aprile 2002 (p. 144).
Cossiga era intimo amico di Licio Gelli, acerrimo nemico di Moro (p. 145). Infine il giornalista Renzo Rossellini annunciò, con la speranza di salvare l’Onorevole democristiano, il sequestro di Moro a ‘Radio Città Futura’ alle 8, 30 del 16 marzo 1978, 30 minuti prima che l’aggressione avesse luogo. Ma invano: Moro doveva morire.
Nell’ottobre del 2008 si presentarono al dr. Imposimato tre militi della Guardia di Finanza (il luogotenente Mario Paganini, il brigadiere Giovanni Ladu e l’appuntato Damiano D’Alessandro), inviati dal colonnello Falorni.
Ladu voleva confessare ad Imposimato quel che aveva vissuto, assieme ad altri bersaglieri di leva, dal 24 aprile all’8 maggio del 1978 (vigilia dell’assassinio di Moro, ucciso il 9 maggio nel garage di via Montalcini nelle prime ore del mattino e ritrovato nel medesimo 9 maggio in via Caetani nel porta bagagli della Renault R4 rossa della BR). Non aveva avuto il coraggio di farlo prima, temendo non solo per la sua carriera militare, ma per la propria incolumità e quella della sua famiglia (p. 155).
I 10 giovani bersaglieri alloggiavano in un gabbiotto in via Montalcini davanti al numero civico 8, interno 1, ove era la prigione di Moro, e mediante una telecamera posta in un lampione vicinissimo all’appartamento-prigione spiavano le mosse dei brigatisti (p. 157).
Tutto era pronto per l’irruzione nel covo che avrebbe dovuto aver luogo l’8 maggio, ma il giorno prima (il 7 maggio) i militari, i corpi speciali italiani e gli agenti dei Servizi segreti stranieri ricevettero “allibiti” (p. 195) l’ordine perentorio di abbandonare la missione. Moro venne ucciso il 9 maggio (p. 169). Ladu venne avvertito dai superiori che doveva dimenticare quel che era successo.
Nel sequestro Moro entrano a far parte personaggi legati alla P2 (Licio Gelli, gen. Gianaledio Maletti, gen. Vito Miceli, gen. Pietro Musumeci, gen. Giuseppe Santovito), alla Banda della Magliana (Pippo Calò, Francesco Pazienza, Paolo Aleandri [10]), ai Servizi segreti italiani ed esteri (Maletti, Miceli, Musumeci, Sokolov ed agenti britannici [11]).
La testimonianza risalente al 2008 di Giovanni Ladu era interessante, ma Imposimato non era assolutamente certo della sua veridicità. Sennonché il 13 settembre 2012 un altro militare che aveva partecipato alle operazioni dall’aprile al maggio del 1978 e si firmava con lo pseudonimo di “Oscar Puddu”, scrisse via mail al dr. Imposimato per avvalorare la versione di Ladu (p. 177).
L’ex giudice volle vagliare tutte le prove per vedere se erano attendibili e alla fine dovette riconoscere che lo erano veramente.
“Oscar Puddu” raccontò che, assieme ai Servizi segreti italiani siti in Forte Braschi (in via della Pineta Sacchetti, quartiere Trionfale) sotto la direzione del generale Pietro Musumeci (della Loggia P2), vi erano anche agenti che parlavano inglese e tedesco (la Germania orientale allora doveva fronteggiare la Banda Baader-Meinhof, una specie di BR tedesche).
Mino Pecorelli in un articolo di “OP” del 17 ottobre 1978 scrisse che il Ministero degli Interni conosceva l’ubicazione della prigione di Moro, ma che non aveva potuto far nulla poiché doveva sentire più in alto[12], ma venne ucciso con un colpo d pistola in bocca il 20 marzo 1979 (pp. 238 e 243).
Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che avrebbe voluto fare l’irruzione con i soli corpi speciali e senza i giovani militari di leva in via Montalcini, lamentò, quando fu ascoltato dalla  Commissione Moro sul suo operato, varie lacune e notevoli difficoltà provenienti da agenti dei Servizi segreti, che erano nella Gladio. Pecorelli scrisse su “OP” del 17 ottobre 1979 che Dalla Chiesa aveva scoperto la prigione, ma non era potuto intervenire perché impedito dal potere politico.
Il coinvolgimento del gen. Dalla Chiesa nella vicenda Moro fu confermato ad Imposimato da un ex carabiniere di nome Alfonso Ferrara il 3 settembre 2009, il quale raccontò con amarezza: “[il 7 maggio] arrivammo con altri commilitoni quasi all’androne del palazzo dov’era la prigione di Moro, quando ricevemmo l’ordine di tornare indietro”. Poi in una telefonata del 26 febbraio del 2013 Alfonso Ferrara disse ad Imposimato che l’operazione dell’8 maggio 1978 in via Montalcini 8 era guidata dal gen. Alberto Dalla Chiesa (pp . 254-255).
Dalla Chiesa venne ucciso a Palermo dalla mafia il 3 settembre 1982, ma prima aveva fatto in tempo a dichiarare alla Commissione Moro l’8 luglio 1980 che i militari diretti da lui erano stati costretti a ritirarsi dall’operazione di via Montalcini per non intralciare il lavoro dell’Ucigos, istituito dal Ministro degli Interni Francesco Cossiga  (p. 256).
Cossiga intervistato da Andrea Cangini per la stesura del libro Fotti il potere (Roma, Aliberti, 2010) sul caso Moro ha dichiarato: “La storia è ricca di complotti e il complotto è una forma della politica” (Fotti il potere, cit., p.264).
Mi sembra doveroso, per concludere, citare Benjamin Disraeli[13] che scrisse: “Il mondo è governato da personaggi che neppure immaginiamo se non guardiamo dietro le quinte” (Coningsby, 1844, p. 183).
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d. Curzio Nitoglia
15 luglio 2013
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[1] Data che fu decisa in Velletri alla fine del 1977 (I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, cit.,p. 133).
[2] Lui stesso scrive nel suo ultimo libro (p. 14) di essere rimasto sconcertato dalla noncuranza di Moro verso il massacro degli uomini della sua scorta, che conosceva molto bene da vari anni e personalmente.
[3] Nel 1977 un agente del Kgb Feodor Sergey Sokolov venne a Roma il 29 settembre del 1977 per seguire Aldo Moro da vicino, frequentando le sue lezioni di Diritto e Procedura Penale alla Facoltà di scienze politiche dell’Università “La Sapienza”. Il colonnello del Sismi Domenico Cogliandro lo faceva pedinare dai suoi uomini e riferiva tutto a Cossiga sin dal suo arrivo a Roma. Il 23 marzo del 1978 una settimana dopo il rapimento di Moro Sokolov ripartì per Mosca e ritornò a Roma dal 2 aprile al luglio del 1978, quando Moro era stato ucciso l’8 maggio del medesimo anno (cfr. Vassilij Mitrokhin, Dossier KGB, rapporto Mitrokhin: tutti i documenti dello spionaggio in Italia, a cura di A. Ruggeri, Roma, Sapere, 2000; C. Andrew – V. Mitrokhin, Archivio Mitrokhin, Milano, Rizzoli, 1999) .
[4] Si può leggere con profitto il  manuale segreto di esecuzione della Cia preparato per il Colpo di Stato del 1954 in Guatemala, desegretato nel 1997 e tradotto in italiano a cura di due ex agenti della Cia, Jesse Ventura & Dick Russell: Il libro che nessun governo ti farebbe mai leggere, (Roma, Newton Compton, 2010).
[5] H. Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, Milano, Sugarco, 1980.
[6] Anche il Segretario del PCI Enrico Berlinguer fu vittima di un attentato a Sofia in Bulgaria il 3 ottobre del 1973 per aver lanciato l’idea dell’Eurocomunismo in attrito con l’Urss e il Pcus di Leonida Breznev ed il “Patto di Varsavia”, cfr. C. Fasanella – C. Incerti, Sofia 1973: Berlinguer deve morire, Roma, Fazi, 2006.
[7] Cfr. Renato Farina, Cossiga mi ha detto, Venezia, Marsilio, 2011, F. Cossiga – A. Cangini, Fotti il potere, Roma, Aliberti, 2010.
[8] Questa testimonianza la si ritrova già nel penultimo libro di Imposimato  (La Repubblica delle stragi impunite, Roma, Newton Compton, 2012). Tuttavia ad essa si aggiungono nell’ultimo libro  (I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia. Perché Aldo Moro doveva morire? La storia vera, Roma, Newton Compton, 20013),  quelle di due militari italiani, che hanno confermato al dr. Imposimato l’ordine di non irrompere nel carcere di Moro, che conferma in maniera inoppugnabile quanto detto da Steve Pieczenik.
[9] Il 6 luglio del 1995 Ferraro venne trovato seduto sul pavimento del bagno di casa sua (in via della Grande Muraglia Cinese n. 46) ed “impiccato” al porta asciugamani con la cinta del suo accappatoio, dopo essere sceso nel bar sotto casa per comprare 1 chilo di gelato. Il cadavere fu ritrovato dalla sua convivente Maria Antonietta Viali, che lo aspettava di ritorno dal bar con il gelato ed avendolo sentito rientrare dal portone d’ingresso, ma non apparire lo trovò in quello stato. Telefonò ai Carabinieri, ma dopo due minuti si presentarono gli agenti dei Servizi segreti e ne constatarono il “suicidio” confermato dal giudice, che non ordinò la autopsia e archiviò il caso come suicidio. Da notare che all’epoca l’ammiraglio era Giovanni Torrisi della P2 e il contrammiraglio Antonino Geraci, anche lui della Loggia massonica di Licio Gelli (Ib., p. 140; cfr. F. Colarieti, La strana morte di Mario Ferraro, agente del Sismi, http://www.colarieti.it/archives/377).
[10] P. Nicotri, Cronaca criminale. La storia definitiva della banda della Magliana, Milano, Baldini & Castoldi, 2010.
[11] M. J. Cereghino – G. Fasanella, Il Golpe inglese, Milano, Chiarelettere, 2011.
[12] Secondo Imposimato si trattava di “ordini superiori a livello Nato ai quali non ci si poteva sottrarre” (I 55 giorni che cambiarono l’Italia, cit., p. 290). Tuttavia il braccio destro di Kissinger, Steve Piecznick disse: “a Cossiga non interessava affatto tirare fuori Moro vivo” (F. Imposimato – S. Provvisonato, Doveva morire, Milano, Chiarelettere, 2008, p. 113).
[13] Conte di Beaconsfield (1804-1881), uomo politico britannico di origini israelitico/italiane di Ferrara. Deputato tory nel 1837. Fondatore del movimento politico “La Giovane Inghilterra”, neoconservatore moderato. Primo Ministro nel 1868, poi capo del Partito Conservatore, ancora Primo Ministro dal 1874 al 1880.

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