venerdì 29 gennaio 2021

PER UNA PEDAGOGIA DELLA DISEDUCAZIONE

PEDAGOGIA DELLA DISEDUCAZIONE1

A cura di Argeo Basevi Magi

Inverno 2020


Una «Pedagogia della diseducazione» non prevede un’educazione aggiuntiva, ossia, ciò che parzialmente attua la forma contemporanea della Scienza dell’educazione, ma una liberazione da un’educazione appresa con un metodo sbagliato - ineducazione -. Ci sono tempi come quelli contemporanei in cui un’educazione impartita in ordine accademico risulta insufficiente se manchino gli educatori adatti a comprendere che non solo le loro nozioni servano a migliorare gli studenti, ma che anche le loro famiglie vadano aggiornate su principi educativi che devono vedere e prevedere un’educazione congiunta e non disgiunta tra famiglie e studenti. Un impegno che doveva essere assunto già dagli inizi degli anni ’50 del XX secolo, quando un dissidente e scomodo prete di nome Lorenzo Milani si assunse la missione, quasi impossibile allora, di riportare la pedagogia alle sue origini con la sua Scuola di Barbiana, e come del resto tentò poco prima anche Maria Montessori. Il principio di don Milani era: diseducare i ricchi per educare i poveri! 

Pertanto, il completo processo di «diseducazione» maieutica susseguente da abitudini sbagliate deve essere unitario e coerente, perché inevitabilmente tutto il nostro sistema cerebrale ruota e fa perno su di un punto basilare, ossia, la sapienza e, quindi, la sua semplicità di esercizio. Occorre tener ben presente che per «diseducazione» non s’intenda una correzione della cosiddetta maleducazione, ma dell’ineducazione.  

Don Milani non aveva né pregiudizi né risentimenti verso la classe agiata della società italiana, ma riconosceva la missione religiosa di un prete di frontiera come lui nell’altro motto: prete povero in povera Chiesa. Una Chiesa, e soprattutto la diocesi di Livorno, che si era schierata contro lui e contro i suoi principi educativi ostacolandolo in modo deciso nella sua iniziativa pedagogica.

Se si esclude un contributo in denaro di 500.000 lire di allora, da parte della sensibilità di Papa Giovanni XXIII e tramite il suo segretario Mons. L. Capovilla - notizia ricevuta direttamente da lui in un nostro incontro a Sotto il Monte -. Esso era stato concesso in risposta ad una lettera di rammarico di don Milani dopo la visita effettuata dai suoi studenti in Vaticano e della sgarbata accoglienza a loro riservata: “Caro Monsignore[…]Viviamo in montagna, senza acqua, senza luce, senza posta, senza telefono, senza strada, senza pane sufficiente, in case pericolanti e poverissime (una recente statistica ha calcolato il reddito medio del Mugello in 150 lire al giorno).”2

Dalla maieutica socratica fino a don Milani 2500 anni di storia hanno riconfermato l’esigenza mai sopita di un principio diseducativo che andasse congiunto in quello altrettanto primario dell’educazione.

Dove un’educazione aggiuntiva sia risultata in effetti una «non-educazione» e non perché non fosse una vera educazione, ma per non aver raggiunto i suoi obbiettivi educativi primari.

Già Rousseau scriveva che più dell’ignoranza facesse paura un’educazione appresa con un metodo sbagliato. Ciò che tentò di rimediare don Milani con la sua scuola, ripristinare un metodo che aveva perso lungo il suo cammino alcuni punti di riferimento basilari. Il principio teoretico e maieutico della diseducazione o liberazione da abitudini sbagliate si è ritrovato continuamente in tutte le principali epoche storiche dell’umanità: dalla Atene di Socrate e Platone, alla II Guerra mondiale contro Hitler. Sempre questo principio è stato trascurato se non emarginato, con le conseguenze che sono intuibili anche da non esperti del settore pedagogico e psicoanalitico.

Infatti nella psicoanalisi di Freud, l’idea del suo transfert è stato l’ennesimo tentativo maieutico di liberazione della parte malata attraverso l’intervento della parte sana del nostro corpo, nel suo caso circoscritto all’ambito cerebrale e di conseguenza mentale.

Per esempio, secondo l’antica filosofia cinese, quella taoista o confuciana, un’educazione era equivalente anche ad una «non educazione», nel senso di principio del Wu-Wei inteso come «non agire o inazione» poiché in essi c’era il medesimo principio buddhista di chiedere di essere inutile affinché vanità e passioni non prendessero il sopravvento sulla saggezza individuale. Oggi purtroppo sono la mediocrità o l’incompetenza ad avere successo; un «oggi» che Leopardi aveva già descritto nei suoi Pensieri, quasi un monito inascoltato di un futuro inespresso, perché espresso in un passato che era già il nostro futuro. Fortunatamente esclusi alcuni importanti scrittori della letteratura italiana del XX secolo come Calvino, Levi, Pasolini, Arpino. Questa non è una critica ad una Pedagogia dell’educazione contemporanea tout court, ma alla sua modalità di esercizio troppo contaminata dalla logica formale. L’abuso della logica formale nell’educazione, come del resto nella psicoanalisi e filosofia, ha reso più sterili i suoi risultati educativi; invece, un di uso più moderato essa avrebbe aumentato l’apprendimento e rendimenti pedagogici. Dalla Repubblica di Platone e Socrate all’Emile di Rousseau vale il ritornello, ripreso infine da Gilles Deleuze: fai ciò che faccio e non ciò che ti dico di fare!

Invece, la contemporanea Scienza dell’educazione si ostina a voler rieducare i carcerati, invece, di diseducarli dalla loro abitudine sbagliata di delinquere, nella speranza, o meglio illusione, che trovandogli un lavoro fuori dal carcere li si possa redimere. Una scelta ritenuta inadeguata da coloro che subiscono atti delinquenziali, ma non certo da coloro che li effettuano, altrimenti non li farebbero. Questo in generale è il motivo o la causa per cui un individuo venga arrestato o incarcerato: perché egli ritiene giustificato delinquere, senza preoccuparsi degli effetti di chi subisce un atto delinquenziale.

Può succedere che un carcerato si senta ancora a suo agio nel mondo abitudinario della delinquenza, e noi vorremo riporcelo ancora all’interno senza averlo prima diseducato.

Ma occorre nuovamente sottolineare che tale forma diseducativa non provenga da nessuna funzione coercitiva, se non per il fatto di dimostrare che l’abitudine di delinquere sia sbagliata, ossia: fai ciò che faccio e non ciò che dico.

Solo il 5% dei carcerati usciti dal carcere non tornano a delinquere, il restante 95% continua in modo vario a delinquere. Questi sono dati riportati dai responsabili dalle indagini condotte nelle carceri, ma almeno arrivare al 25/30% di recupero per giustificare una quasi ottimale rieducazione.

Può ascriversi nelle forme utopiche la speranza o anche la buona fede degli educatori o degli psicologi che si infrangono contro i muro di gomma di persone che hanno visto e vedono negli atti delinquenziali l’unica giustificazione spericolata della loro vita? Sperare in una completa rieducazione o redenzione dei carcerati non solo è un’utopia ma anche un danno ulteriore ad una cittadinanza che fatica quotidianamente per non deragliare nei suoi princìpi fondamentali di un’etica convivenza.

«ANAMORFOSI» FENOMENOLOGICA E SEMPLICITÀ

Si evince che si possa riscontrare anche nel caso della popolazione carceraria un’«anamorfosi inconscia». Questo termine deriva da un verbo greco che significa: riformare, formare di nuovo. In termini scientifici, la «Thaumaturgus opticus» è una parola che nacque nel XVII secolo e significa una sorta di «depravazione ottica». Inoltre, i giochi della riflessione e della prospettiva, le immagini distorte, che alla nostra retina appaiono mostruose e al nostro cervello indecifrabili, possono - se osservate da un certo punto dello spazio - ricomporsi o rettificarsi. Svelano, insomma, figure a prima vista non percepibili. Forse, gli stessi detenuti prima di essere incarcerati sono stati coinvolti in questa distorsione ottica e mentale che li ha costretti a reagire contro i principi etici e morali correnti, giustificando interiormente il loro comportamento che la società contemporanea e moderna punisce con la detenzione carceraria.

Il carcere, che però escluda come principio nel suo esistere ogni forma di tortura sia psicologica sia fisica, è un organismo statale istituito per punire e isolare individui che non si sono adattati al comune senso di convivenza civile che la maggioranza degli individui che compongono una società cosiddetta civile si sono costituite per vivere nel migliore rispetto un’esistenza condivisa dell’umanità.

Purtroppo all’interno di questa società esistono ed esisteranno sempre frange di individui anarchiche o ribelli che invece di una giusta convivenza tra di loro preferiscano trasgredire tali norme e regole imposte; per questo le carceri son state istituite anche perché non si trascenda in un’anarchia sociale. Regole e norme condivise fanno parte di un sistema, che si è ereditato dall’antica Grecia come democrazia.

Pertanto, indagando la situazione post-carceraria di un detenuto, la sua pretesa rieducazione si potrebbe definire - senza pericolo di essere sementiti - un fallimento pedagogico, seppur animata da un’idea o speranza di ravvedimento sociale e interiore di un ex detenuto. Gli sforzi e le migliori intenzioni che vengono attuati dai pedagogisti e gli psicologi sono meritorie, ma insufficienti, seppur talvolta inefficaci.

Infatti, gli psicologi si sono affidati alla farmacologia, che garantisce risultati quasi immediati, come abbiamo visto, ma con effetti collaterali pericolosi, che possono causare ulteriori danni all’apparato psico-fisiologico di un individuo. I farmaci non liberano l’ex detenuto dalla sua volontà di delinquere, ma annullano quasi la sua volontà naturale di agire. I pedagogisti da parte loro dirigono, invece, la loro forma di attenzione verso le autorità carcerarie affinché la detenzione imposta a singoli individui, nel caso specifico di detenuti, non debba essere confinata a ferire la dignità umana di un individuo, poiché sono il risultato di un insieme di circostanze e di comportamenti, che necessariamente possono essere classificate come attività autoritarie, sicché la somma e il risultato finale di quelle attività e di quei comportamenti finiscono per costituire un «trattamento disumano o degradante». Dal punto di vista etico e sociale si cerca di convincere la maggior parte dei cittadini che rispetta regole e riferimenti di convivenza civili della bontà del principio di rieducazione carceraria; e allora perché sono state istituite le carceri, non certo come residenze di villeggiatura? Combinare funzioni punitive e redenzione carceraria sembra il risultato di un ossimoro pedagogiche piuttosto difficile da sostenere in nome di un’esigenza sociale, che dopotutto vede un delinquente fuori dal carcere non solo un pericolo per sé stesso, ma per la cittadinanza. Un problema relazionale che non si può risolvere con alchimie pedagogiche o giustificazioni compassionevoli. Purtroppo ci sono state e ci saranno sempre degli errori giudiziari, come quello di Enzo Tortora, che sono pur sempre minoritari rispetto alla maggioranza della popolazione carceraria che delinque veramente. È proprio in casi come quest’ultimo che va rivolta maggiore attenzione, affinché non si ripetano, e poi dedicarsi alla diseducazione carceraria.

L’esempio di tale trattamento, che i pedagogisti denunciano in molte carceri, si può riassumere nella combinazione di tre situazioni carcerarie: sovraffollamento, mancanza di servizi igienici individuali - in una cella che ospita più detenuti del previsto, ciascuno di essi ha a disposizione un bugliolo e che è costretto a usare in presenza di altri -; carenza di attività «sociale» come sport, lavoro, corsi di formazione professionale, eccetera.

La sovrapposizione di queste tre situazioni porta a condizioni di detenzione incivili per una cosiddetta società democratica o degradanti per i reclusi. Altrettanto si può dire di un’altra pratica, frequente soprattutto nei Paesi dell’Europa centrale e del Nord, ossia, l’isolamento carcerario.

È altrettanto chiaro che in una società democratica come quella italiana dove diritti e doveri di ogni cittadino sono regolati e garantiti dalla sua Costituzione, non è, comunque, garantito il diritto a delinquere, anzi: il dovere a non delinquere! Per i pedagogisti della «civile» e democratica Europa le carceri vengono ancora concepite spesso come «immondezzai sociali», e cioè come istituzioni in cui si esiliano, per tenerli lontano dalla società, individui che vengano considerati reprobi, reietti o disadattati sociali.

Secondo loro, le prigioni restano istituzioni in cui il recluso finisce per essere punito due volte: non solo attraverso la privazione della libertà, ma anche a causa delle condizioni di detenzione cui è sottoposto, e che finiscono per umiliarlo, degradarlo o comunque condurlo nuovamente nel crimine organizzato.

Siamo in presenza di un paradosso o un’«anamorfosi» pedagogica dove diritti e doveri vengono confusi o distorti dal principio di non ledere, seppur giustamente in generale, la dignità umana di ognuno?

L’ossessione pedagogica e sociale di dover trovare un lavoro agli ex detenuti, è palesemente in contrasto alla difficoltà giovanile di trovare agli inizi del XXI secolo un lavoro e quella adulta di mantenerlo, tanto che paradossalmente sembri al cittadino, che rispetta le regole di convivenza civile, che farsi arrestare per un qualsiasi reato, all’uscita successiva dal carcere si trovi più facilmente un lavoro. Questo paragone provocatorio può servire per mettere in evidenza delle contraddizioni esistenziali con le quali facciamo ci misuriamo quotidianamente, sebbene talvolta non ci rendiamo conto di quanta perplessità possano creare nella mente delle cosiddette persone civili che non sono abituate a delinquere, e alcune iniziative di ordine sociale o emotivo che sembrano implausibili alla maggioranza di tali cittadini. Del resto si ricorda il caso eclatante del presentatore televisivo Enzo Tortora arrestato nel 1984 per un evidente caso di omonimia con un noto mafioso, e risultato invece innocente. Quello fu un errore giudiziario e non un errore di uno stile di vita sbagliato, come potrebbe essere quello di un mafioso. La difesa di Enzo Tortora da parte di una certa parte politica in particolare del Partito Radicale aprì una vertenza che si concluse con la sua completa assoluzione, ma lasciò seri segni indelebili sulla sua salute fisica.

Da quella circostanza il Partito Radicale iniziò una campagna non per la difesa dei detenuti colpevoli di gravi reati, che continua ancora oggi, ma su una riforma carceraria e un trattamento verso i detenuti nelle carceri più dignitoso per una società cosiddetta civile. Anch’esso inciampò in un clamoroso errore quando candidò Toni Negri per sollevarlo dall’accusa di sospetta collusine di il terrorismo delle Brigate Rosse, successivamente Negri si rifugiò in Francia per evitare di essere processato in Italia. L’ultimo paradosso in ordine di tempo è il caso di Cesare Battisti condannato a quattro ergastoli e rimasto latitante tra Francia e Brasile per più di 30 anni prima di essere arrestato in Bolivia!

L’idea dei pedagogisti di una rieducazione dei detenuti si basa comunque su un principio educativo, come se non ci fosse un centro educativo recettivo e costante, ma che ogni punto complementare potesse diventare a sua volta un centro rieducativo operativo. La semplicità diseducativa consiste, invece, nel decentramento di una miriade di semplicità operative all’interno di operazioni diseducative, che, invece, ci rimandano all’idea di una operatività estremamente complessa, se analizzata nel suo insieme.

A questo punto, la rieducazione dei detenuti diventa una forma complementare di «non-educazione pedagogica » all’interno della gestione di un’educazione pedagogica prioritaria, il che non significa che sia un’antitesi della pedagogia generale, la quale a sua volta deve convergere ad una complementare diseducazione da attuarsi su individui che hanno assunto abitudini sbagliate tali da indurli a delinquere.

Si evince, che semplicità e sapienza siano inscindibili nella loro azione propedeutica all’umanità; sebbene nel XXI secolo di oggi siano classificate come concetti collaterali di un’idea di complessità imperante.

Ciò non significa che una complessità pedagogica sia ininfluente rispetto alla sua complementare semplicità, ma solo che la sua influenza sia inferiore a quanto pensa la maggioranza dei ricercatori nel suo «esser-ci», ma altrettanto necessaria quanto la semplicità. Il motivo per cui la scienza dopo 2500 anni abbia ancora un timore inconscio della semplicità sembra sconosciuto, o forse incomprensibile, ma c’è una novella che potrebbe confermare questo timore.

Un tempo «Dio» decise di nascondere un segreto - l’anima - che l’essere umano non avrebbe potuto facilmente scovare; nasconderla sottoterra, no, perché avrebbe potuto scavarla e trovarla; sotto il mare, no, perché anche lì avrebbe potuto trovarla; allora decise di nasconderla dentro lo stesso essere umano, perché lì avrebbe dovuto impegnarsi a fondo per riconoscerla. Per riconoscerla, egli avrebbe dovuto ricorrere alla sapienza. «Dio» non intendeva certo riferirsi all’inconscio, ma all’anima di ogni individuo. Sebbene Freud l’abbia definita inconscio, ciò non cambia o modifica la sua validità operativa. Esiste un centro di memoria e non, in ognuno di noi, che non possiamo ritenere né un organo, come la mente, né un centro operativo, come il cervello, ma una condizione intellettiva e impalpabile che si ricollega o si serve di entrambi.

Abbiamo scelto il cervello come organo privilegiato e forse più plausibile per giustificare questa ipotesi memstica o intellettiva. Questa convergenza variabile su di un punto è sostanzialmente l’attenzione dell’organo cerebrale, che è concentrato sull’intera macchina operativa umana e che per un dato processo si mette in sintonia anche con una sua parte, che è un oggetto, una parola, una persona, un processo logico.

Quindi, questo decentramento cerebrale coinvolge altre reti periferiche, ma crea, secondo la nostra limitata capacità interpretativa dei fenomeni cerebrali, ciò che consideriamo complicazioni enormi nei collegamenti interni, e che, invece, per la Physis sono espresse con una disarmante semplicità.

Anche la memoria - per esempio di un fatto, di un volto, di una malattia - verosimilmente rimane in quanto circuito preferenziale, e ciò implica ulteriori complicazioni nelle reazioni fisiche ed emotive.

Esse sono viste come complicazioni, o realtà complesse, perché entrando in gioco la nostra capacità cerebrale e intellettiva essa le traduce in emozioni o sentimenti, che la nostra mente non sa giustificare come provenienti dal microcosmo fenomenologico della nostra fisicità, la quale, invece, rappresenta il macrocosmo fenomenologico della nostra fisicità corporea.

Entrambi sono epifenomeni dei quali uno è invisibile ai nostri occhi fisici e l’altro visibile solo a quelli interiori, come intendeva Steiner. Non è un ritornello banale di ciò che sappiamo da millenni, ma ciò che differenzia sostanzialmente l’idea di semplicità e complessità che ci siamo fatti di noi stessi, ossia, come parte animistica e fisica di ciò che siamo realmente.

La parte animistica, o metafisica, ci consente e ci ha consentito, senza dover scomodare continuamente il cogito cartesiano, di accettare secondo me e di riconoscere secondo Descartes la nostra esistenza fisica e corporale. Entrambe convivono semplicemente e in questa semplice convivenza consiste la semplicità naturale da cui dipendono miriadi di operazioni, che sono così numerose da indurci a pensarle complesse proprio perché per noi è impossibile mentalmente ridurle ad fenomeno singolo così rapido. In questa rapidità operativa microcosmica - che può raggiungere se non superare talvolta la velocità della luce - consiste la loro semplicità primitiva, che non si coniuga con la «lentezza» della nostra fisicità macrocosmica.

Questo è il ritornello di una «rapidità della lentezza» con cui ci rapportiamo e «abitiamo» su questo pianeta. Riteniamo che lo spin elettronico cui è sottoposto ogni atomo della nostra materialità si muova alla velocità della luce, noi invece possiamo camminare normalmente alla velocità di un paio di mt/sec.

In questo ossimoro operativo ed ermeneutico della nostra fisicità convivono il semplice e il complesso, ma in un’armonia operativa generale che non può pendere altrimenti che a favore di una semplicità prevalente, perché esercitata attraverso una sapienza ereditaria e trascendente che consente quotidianamente questo matrimonio consensuale tra semplicità e complessità. Noi, invece, preferiamo separarli o farli divorziare per favorire un’idea di complessità predominante.

Attraverso la semplicità, quindi, un’«anamorfosi conscia» rinnova quotidianamente i nostri princìpi di sopravvivenza sulla Terra. Anche conscio e inconscio s’incontrano nel loro transfert e si scontrano nel contro-transfert come parti integranti del nostro vivere quotidiano, operando un’«anamorfosi» fenomenologica, nel senso di un rinnovamento, continuo e impercettibile se non attraverso un’attenta e congiunta osservazione dei nostri occhi interiori ed esteriori.


1 Basevi Magi Argeo, Involuzionismo cosmico, (2007), C.E.L.S.B., Bergamo, cap.III pp.151-178.

2 Lettera spedita a Mons. Loris Capovilla da Barbiana il 28 maggio 1962.

 

Argeo Basevi Magi è l'autore di Involuzionismo Cosmico

Per l'ebook: https://www.amazon.it/INVOLUZIONISMO-COSMICO-Involuzionismo-diseducazione-co-variazione-ebook/dp/B07QGQ8K5W/


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