giovedì 18 febbraio 2021

JACOB BURCKHARDT - a cura di Shlomo

JACOB BURCKHARDT

a cura di Argeo Basevi Magi 

(Autore di: "INVOLUZIONISMO COSMICO: Involuzionismo a stadi nell’adultità - Pedagogia della diseducazione - Punto e « co-variazione » della freccia del tempo - Redenzione")


In un ambito strettamente antropogenetico non può sussistere un essere umano A=C, pur passando attraverso la comparazione con B, a meno che non si tratti di un alieno, poiché egli ha mantenuto delle peculiarità fisse e basilari in tutto il suo sviluppo, mentre le altre sono effetti collaterali dovute a un normale avvicendamento genetico, ma non sostanziale.

Risulterebbe inadeguato pretendere che un bambino comprenda una comparazione di valore tra A e C passando per B.

Tra gli esseri umani si possono trovare quelli più alti o più bassi, biondi o bruni, calvi e non e così via, ma sostanzialmente con un numero d’organi come occhi, orecchie, gambe, braccia, testa, comune a tutti.

Insensato sarebbe pretendere di risolvere un problema antropogenetico attraverso l’aiuto della matematica e della «logica», e addirittura che dei bambini possano interpretare la loro infanzia attraverso l’applicazione dell’aritmetica e la numerologia.

Questa è una violenza gratuita e futile per dimostrare sempre che la nostra intelligenza o genialità sia una conseguenza dell’evoluzione fitogenetica da cui proveniamo e dipendiamo.

La «logica» matematica ha senza dubbio contribuito a costruire ipotesi e macchine impensabili fino a un secolo fa, ma non dobbiamo pretendere di ricostruire azioni e caratteri umani attraverso di essa, poiché ne pagheremmo le conseguenze storiche a breve distanza temporale.

Un appello accorato ad una ritrovata filosofia della diseducazione che serva principalmente come catalizzatore verso un’umanità che si sta avvitando sempre più su se stessa e che stenta a percepire la causa della sua probabile autodistruzione planetaria, e che debba riprendere il valore archetipo della sapienza utilizzata non come un vaccino contro la «bio-stupidità», ma come schiavitù all’«amore».

Un’umanità, come dichiarava Goethe, che rispetti lo spirito naturale della Terra che ci ospita ancora, anche se da essa è derivato il serpente che si rivolge ai progenitori, incitandoli a cogliere i frutti dell’albero del bene e del male. “Sarete come «Dio» avendo la conoscenza del Bene e del Male” (Gen.III,5).

Jakob Burckhardt [1818-1897], considerato uno dei più grandi storici di tutti i tempi, è stato il maggiore esponente della teoria della <frattura> fra Rinascimento e Medioevo, nel considerare il periodo rinascimentale come una civiltà totale, nella manifestazione completa dell’essere umano in tutte le sue capacità morali, intellettuali e artistiche.

Sosteneva che il potere in quanto potere reale è stato più forte del bene e del male di singoli individui e d’interi popoli, che risultano impotenti nei suoi confronti.

Non è stato ancora fondato un potere storico senza azioni violente, violazioni dei diritti e crimini, anche se i più alti riscontri materiali e l’eredità spirituali delle nazioni si siano sviluppate solo in un’esistenza resa sicura dal potere della violenza.

L’umanità generalmente si è adattata agli avvenimenti più terribili, ma quando erano già accaduti, e aggiungendovi le proprie energie più sane di <bene o male>, ci si è anche adeguata e abituata.

Per Burckhardt veramente potente non era la violenza che distrugge, ma ciò che poteva rendere felici e poteva risultare creativa; pensava che ne facessero parte soprattutto le creazioni dell’arte, nelle quali l’«esserci» storico degli esseri umani e delle cose si manifestava paradossalmente nella sua piena e totale assenza.

Dopo l’immagine universale del Rinascimento aristocratico, l’essere umano si è involuto nella moderna democrazia, diventando quello della cultura generica, Burckhardt previde una futura barbarie civilizzata, come ulteriore conseguenza del cosiddetto <secolo della cultura>.

Ogni individuo tende a raggiungere la felicità, ma essa non ha mai avuto né luogo né tempo d’esercizio; non ci siamo resi conto che tutte le azioni umane sono minacciate e insicure, quanto la nostra instabilità planetaria.

Da democrazie localistiche più gestibili, si sta passando verso l’idea di una democrazia globalizzata, ingestibile con le attuali forze in campo, la quale inevitabilmente sembrerà gestibile solo attraverso le confessioni religiose, che talvolta sono in aperta contraddizione con essa.

Immaginiamo la nostra felicità nella speranza quasi messianica di una «cultura universale» e compiangendo le epoche passate e in particolare il Medioevo forse per l’assenza del «progresso», oppure romanticamente la presunta serenità della vita ellenica.

La fonte comune di questi equivoci è il nostro marcato ego-centrismo, che ipotizza felici quelle epoche perché somiglianti al nostro modo di essere della nostra odierna esistenza e al nostro effimero benessere economico.

Riteniamo che ciascuna propria epoca sia il compimento dei tempi e non semplicemente come una temporalità passeggera.

Sembra che l’essere umano sia nato per rimanere insoddisfatto, un’insoddisfazione che non può essere né maggiore né minore.

In certi periodi ed epoche si sono visti dei popoli che ci hanno consegnato l’impressione della loro grandezza e la volontà di un sentimento di dominare ogni cosa, perciò consegnandoci il senso di una felicità ereditaria.

Non potendo rinunciare al senso di tale felicità, occorre diseducarci affinché essa non venga più confusa con il benessere sia fisico sia intellettivo.

Possiamo ambire alla felicità solo se il nostro corpo fisico e la nostra coscienza siano in equilibrio e armonia tra loro, e non il contrario. Ciò che anche Locke sosteneva nella sua opera Lettera alla tolleranza.

Perciò le azioni morali appartengono a entrambi i tribunali, quello esterno e quello interno, e sono entrambi i tribunali[...]cioè del magistrato e della coscienza.4

La nostra coscienza è la culla della filosofia del silenzio; simile a una fabbrica composta d’articolazioni molteplici che operano in perfetto equilibrio e armonia, dove il corpo fisico è il magistrato che la contiene e può formulare un giudizio sulla relativa sofferenza derivata dalla conoscenza dell’essere umano come tale, corpo e coscienza, come è sempre stato, è e comunque sarà.

Una grandezza storica e una relativa sofferenza dell’umanità, sono ossimori di una felicità e un’infelicità? Ecco che benessere e miseria si ritrovano in una contrapposizione storica e sociale.

La miseria cui sono stati sottoposti altri popoli è stata anche il limite più basso della loro esistenza dell’infelicità, tanto che il desiderio di felicità diventa inesorabilmente l’aspirazione al benessere totale.

Una pseudo φιλοσοφία occidentale legata al «progresso» ci ha lentamente illusi nel XX sec. di essere felici solo acquistando dei beni e privilegi materiali, mentre la φιλοσοφία orientale del geduld ist alles: la pazienza è tutto, indicava il contrario, ossia che era nel liberarsi di cose futili e materiali il percorso naturale per una felicità mondana.

Un individuo che non possiede e ambisce a beni materiali è felice perché possiede già quello principale: l’armonia con l’«io stesso».

La vera tolleranza è gestita dalla nostra mente nei confronti di un corpo fisico che spesso tende a sopraffarla in nome di desideri e passioni che lo abitano paradossalmente.

Il dominio di un silenzio equilibrato del nostro corpo fisico è la prosecuzione della nostra felicità, mentre l’infelicità è diventata il rumore del dolore della nostra mente.

La civiltà in senso universale con tutto il suo apparato, si fondava sulla nostra propensione all’irreale e all’inutile, secondo il rumeno Emile M. Cioran [1911-1995].

Le azioni più odiose cui pensiamo responsabile il demonio appaiono, nei loro effetti, meno nocive di quanto non siano gli argomenti degli scettici quando cessano d’esercitare la passione, per convertirsi all’ossessione.

Come potrebbe uno scettico offrire alla civiltà il silenzio di cui ha bisogno, se prima ha saccheggiato tutto intorno a sé, e forse, in sé?

Pensiamo al silenzio della luce irradiata del sole e della luna. Un veivolo che viaggia oltre la velocità del suono, sappiamo che provoca un tuono improvviso che scuote l’aria che respiriamo, mentre la luce che si sposta in essa a una velocità infinitamente più grande, non produce alcun rumore.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna?/ Sorgi la sera, e vai, / contemplando i deserti; indi ti posi”.

Un linguaggio chiaro, preciso, veloce, e soprattutto immerso nel silenzio del pensiero; che Leopardi ci offriva per sfuggire, proprio nell’atto di descriverla, l’insensatezza del vivere e d’ogni cosa, nel magico silenzio del <fratello sole> e della <sorella luna> di francescana memoria


JACOB BURCKHARDT

Considerazioni sulla storia del mondo, (1945), Bompiani, Milano, 1945.


LA NATURA DELLA GRANDEZZA

Studiando la natura della grandezza stiamo soprattutto attenti di non rappresentarcela come un ideale morale dell’umanità. Perché un grand’uomo non è un modello; è un’eccezione nella storia. Ecco quali sono secondo noi le caratteristiche della grandezza: le facoltà del grand’uomo si rivelano e si sviluppano completamente con la coscienza che egli assume del suo proprio valore e del compito che gli spetta. Egli è non solo all’altezza di tutte le situazioni, ma esse diventano subito troppo limitate per lui, perché, non solo le domina, ma è capace di superarle. Ci si chiede allora per quanto tempo egli saprà dominarsi e farsi perdonare la grandezza della sua natura. La sua potenza intellettuale ed anche fisica, la sua attitudine alla conoscenza come alla creazione, la sua facilità all’analisi come alla sintesi, superano la misura abituale. Egli possiede naturalmente il potere di concentrarsi a volontà su di un solo soggetto e poi di passare ad un altro. Così tutte le cose gli sembrano semplici mentre a noi paiono complesse e contradditorie. Egli vede chiaro quanto noi non comprendiamo più nulla. L’essere superiore afferra le relazioni sia dei dettagli come del complesso; egli valuta le cause e gli effetti grazie ad una funzione infallibile del suo cervello. Egli discerne i benché minimi rapporti, perché si ampliano moltiplicandosi ma non può impedirsi di conoscere gli individui insignificanti[…]Ma l’uomo di genio attira gli spiriti che pensano ed essi sanno che egli compie delle cose necessarie che non potrebbero riuscire a nessun altro[…]Dotati di una forza simile, si fa in pochi anni «il lavoro di molti secoli»”.(pp.207-208)

Altri realizzano questa emancipazione (menzogna, apparenza), in genere solo sul piano strettamente intellettuale, con l’instaurare un ordine di garanzie della mediocrità e di sicurezza generale degli ingegni medi e delle false nomee che scompaiono tanto rapidamente come sono venute [Ci sono però, in certi rami, dei geni che pur rivelandosi di colpo raggiungono subito una gloria reale]”.(p.219)

Ma se allora apparisse il grande uomo e non soccombesse di colpo potrebbe anche accadere che la camorra dei chiacchieroni lo paralizzasse e lo soffocasse di ironie. Perché la nostra epoca [1845] ha una particolare potenza per scoraggiare e distruggere”.(p.219)

Non è concesso a tutte le epoche di avere il suo grande uomo come non è sempre concesso ai geni di trovare il loro secolo. Forse, adesso, vi sono, da qualche parte, dei grandi uomini per delle cose che non esistono. È certo che il carattere dominante della nostra epoca, la pretesa della folla al benessere, non saprebbe produrre una grande personalità. Noi constatiamo ovunque un enorme livellamento e saremmo in diritto di giudicare impossibile la comparsa di grandi individualità, se un presentimento non ci dicesse che la crisi non scivolerà di colpo dal piano miserabile degli «affari» ad un altro piano e che l’uomo atteso sorgerà un giorno e sarà seguito dalla folla”.(p.220)

Qual è il movente interiore che sospinge i grandi uomini? Di solito si mette in primo posto il desiderio di gloria o la sua forma corrente che è l’ambizione cioè il bisogno che prova un individuo di essere ammirato dai suoi contemporanei, più esattamente di sentirli alle sue dipendenze. In realtà, l’ambizione non è che un elemento secondario e la preoccupazione della fama presso la posterità, un elemento terziario”.(p.217)

La gloria fugge quelli che la cercano e invece predilige quelli che non se ne imbarazzano”(p.217)


GIUSTIFICAZIONE DEI DELITTI

I delitti dei grandi uomini si giustificano anche perché molto spesso mettono fine a innumerevoli misfatti”.(p.216)

D’altra parte i potenti preferiscono spesso l’adulazione alla gloria poiché quest’ultima celebra solo il loro genio, di cui essi sono già persuasi, mentre prima è una conferma della loro potenza”.(p.217)


INTUIZIONE

Tutto il mio studio storico, egli scrive, come il mio disegnar paesaggi e il mio occuparmi d’arte, nasce da un’enorme sete d’intuizione

Ma il male dominante ha un significato importante perché senza di lui non potrebbe esistere il bene disinteressato. Se i buoni fossero premiati e i cattivi puniti, sarebbe intollerabile vedere i malvagi comportarsi bene per cupidigia del premio, rimanendo canaglie nel fondo nell’anima; con ciò il numero dei cattivi non diminuirebbe certo. Forse si arriverebbe a desiderare che il cielo ristabilisse sulla terra l’impunità dei delitti col solo scopo di obbligare i malvagi a riassumere il loro viso reale. Ce n’è abbastanza di ipocrisia perché si debba desiderarne dell’altra”.(pp. 231-232)

Dobbiamo soprattutto guardarci dallo scambiare semplicemente le nostre prospettive storiche per le leggi della storia universale”.(p.233)


CRISI

Dal principio non si potrà mai formulare una giusta valutazione, del grado e del valore di una crisi né soprattutto della sua forza di diffusione; perché non è tanto un programma che le imprima la sua direzione quanto la sua potenza in materie infiammabili e cioè il numero e la disposizione di quelli che soffrono e che si augurano da molto tempo uno sconvolgimento generale. Una cosa è certa: la resistenza materiale non fa che accentuare le varie crisi, mentre gli sconvolgimenti superficiali e parziali ne sono paralizzati nonostante tutto il fracasso che hanno fatto nascendo”.(p.159)

Dal momento che la crisi precipita ed entra nella fase di stanchezza, i vecchi mezzi usati dal potere, esercito e polizia, riprendono da soli la loro strada. Ed è a questa la forza già pronta e non a delle assemblee di nuova elezione e moderate che un regime sfinito chiederà la salvezza”.(p.168)

Ma alle volte, le democrazie sono ancor più facili ad abdicare[…]Il dispotismo provoca spesso un benessere materiale che cancella il ricordo della crisi. Ma le sue conseguenze sono inevitabili perché, per se stesso essendo personale esso non offre nessuna garanzia, e come erede di un grande potere propende a commettere delle violenze contro i vicini non fosse che perché vede in loro una metastasi delle agitazioni interne che, fino allora, hanno turbato il suo paese”.(p.169)

Le crisi rappresentano una svolta nel nostro sviluppo; esse ci liberano di colpo di un’infinità di forze esterne da tempo prive di vita ma la cui eliminazione era resa impossibile dal loro diritto storico”. (p.171)

Le crisi ci liberano anche dal timore esagerato dei cambiamenti; fanno balzar fuori delle vigorose e nuove personalità”.(p.171)

Lo sconvolgimento (della crisi) per se stesso è poco o niente nocivo all’arte e alla letteratura; in mezzo al pericolo generale, sorgono delle grandi forze spirituali fino allora sconosciute e sconcertano completamente i puri sfruttatori della crisi”.(p.172)

È molto da temere che la crisi attuale (1848) si complichi nell’avvenire in guerre gigantesche tra i popoli”.(p.174)


DISPOTISMO

Quando un capo o un partito è esaurito o cade, è subito rimpiazzato da un altro che forse non avrà più le attitudini occasionali richieste ma che per un momento diventerà ugualmente il centro degli avvenimenti”.(p.161)

Le masse vogliono guadagnarsi la vita in pace; se la repubblica o la monarchia gliene daranno il modo, esse approveranno il regime; se no, senza incertezze, esse favoriranno quella prima forma di Stato che prometterà loro questo vantaggio”.(p.184)

Le grandi assemblee nazionali sono in genere il primo campo d’azione delle crisi”.(p.160)

Così la Francia ha conservato l’eguaglianza mentre la Rivoluzione credeva ingenuamente di aver iniziato gli uomini alla libertà, di esser lei stessa la libertà in persona, lei che era priva della più elementare indipendenza come può esserlo un incendio in una foresta”.(p.165)

Così i nuovi proprietari dei beni nazionali in Francia, provavano dopo il 1794-95 solo disgusto per il vecchio regime eppure si auguravano ardentemente la formazione di una potenza dispotica che potesse garantire loro un pacifico possesso, e tanto peggio per la libertà”.(p.167)

Per terminare, consideriamo la questione religiosa. Tutta l’Europa occidentale soffre della lotta tra il concetto della vita nato dalla Rivoluzione francese e quello della Chiesa cattolica; questo urto, in ultima analisi, viene dall’ottimismo della prima e dal pessimismo della seconda”.(p.183)

4 Locke J., Lettera sulla tolleranza, (1994), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2002, p.39.



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