lunedì 8 febbraio 2021

Riflessioni sulla crisi economica del 2029

RIFLESSIONI TEMPORALI

A cura di Argeo Shlomo Basevi Magi


(Autore di: "INVOLUZIONISMO COSMICO: Involuzionismo a stadi nell’adultità - Pedagogia della diseducazione - Punto e « co-variazione » della freccia del tempo - Redenzione")

 


Inverno 2020-2021

IL «TRANSFERT» ECONOMICO DI GIAPPONE E CINA

Mentre Karl Marx affermava che l’ideologia e l’etica altro non erano che il riflesso delle condizioni materiali fondamentali - in particolare quelle economiche - Max Weber in L’etica protestante e Lo spirito del capitalismo sosteneva l’esistenza del rapporto esattamente contrario.

Riteneva che ciò che è dato è l’etica, e che non si possa sviluppare un’economia compatibile con essa, è anzi inevitabile che l’economia sia compatibile con l’etica. E da questo punto di vista Weber esaminò le maggiori religioni del mondo.

Nel 1946 il Giappone era molto povero. Distrutto dalla guerra. Hiroschima e Nagasaki erano rimasti simboli indelebili nella memoria storica giapponese. Comunque, il Giappone anticipa di alcuni decenni ciò che si sta ripetendo in proporzioni decuplicate quello che la Cina sta attuando da poco più di 30 anni.

Dal 1960 il Giappone cominciò a pensare che il mondo si stesse muovendo in direzione di una società ad alto contenuto informatico, dove lo scambio di notizie fosse estremamente importante.

I politici occidentali, che oggi affermano di voler riconquistare il loro mercato interno, assomigliano a un Don Chisciotte redivivo. Si battono anche loro contro dei mulini a vento. Il mercato interno, o ciò che ne resta, si è ristretto ogni giorno, poiché esso è il suo prezzo, ossia, la sua ultima condizione dello sviluppo. Oggi sembra che l’unico modo di salvare e di rinforzare l’industria non sia quello di chiuderla nei suoi particolarismi, ma di aprirla ai grandi spazi. I giapponesi lo avevano capito prima dei cinesi.

Quando decisero dopo la II Guerra mondiale di diventare una grande potenza industriale, non hanno cercato di imporre i loro gusti al resto del mondo.

Hanno cominciato, invece, a copiare pazientemente gli apparecchi fotografici tedeschi, le vetture europee, l’elettronica americana. Progressivamente cercando però di fare meglio dell’Occidente.

Ma a differenza del governo comunista cinese hanno mantenuto un rispetto sia della democrazia sia dei diritti dei lavoratori.

Infatti, il governo comunista cinese, che si potrebbe oggi definire dittatoriale, ha schiavizzato più della metà della sua popolazione riducendo salari, diritti, affinché questo potesse competere in breve tempo con l’industria e l’economia occidentali, per poi tentare di superarle come sta facendo oggi. Oggi si scopre che una delle forze dell’industria giapponese sia stata quella di impiegare operai che avessero almeno il diploma di maturità, ai quali si è data la possibilità di intervenire anche nella produzione dei manufatti. La medesima modalità di «transfert educativo» è stata seguita qualche lustro successivo dal governo cinese che ha creato una quantità di ingegneri inimmaginabile per noi oggi in Europa e Stati Uniti.

Mentre noi ancora ci dibattiamo sulla validità delle ideologie Marxiste, su cosa sia il capitalismo o se esso sia vivo o moribondo, la nuova Cina comunista e capitalistica ha scavalcato in circa 35 anni queste teorie proiettandosi senza limiti ai giorni nostri con la sua avventura capitalistica, demolendo in tre decenni quello che rimaneva del retaggio marxista-leninista che aveva caratterizzato l’ultima rivoluzione comunista cinese, ossia, quella maoista.

Il presidente cinese Deng Xiao Ping ha dato inizio a questa trasformazione in senso comunista-capitalistico, mettendo insieme il diavolo e l’acqua santa, in quell’abile capolavoro filosofico-capitalistico che è l’economia capitalistica cinese. Tutto ciò è avvenuto sotto gli occhi di un Occidente compiaciuto di fare affari con la Cina, che invece stava intessendo una trama sottile e nascosta facendo credere a noi che sarebbe stato un vantaggio per tutto l’Occidente la loro iniziativa imprenditoriale.

Non dimentichiamoci che anche Adolf Hitler attuò un sistema simile all’interno di un nazionalsocialismo totalitario, che si sarebbe dovuto contrappore al nascente comunismo socialista della Russia bolscevica.

Non a caso si costituì l’asse Berlino-Roma-Tokyo (RO-BER-TO), dove per ironia della storia il Giappone avrebbe dovuto ricevere il progetto tedesco della costruzione della prima arma nucleare, documenti che non arrivarono mai in Giappone. Anche il quel momento si attuò un transfert di know-how che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo occidentale e orientale. Oggi, inoltre, si cerca di illudere lo stesso consumatore di possedere o avere il diritto di scegliere. Pertanto, i costruttori occidentali sono obbligati a moltiplicare le marche, i modelli, gli accessori dei loro manufatti, per competere con il modello cinese. Una disputa di simile principio ha diviso 40 anni fa il mondo dell’informatica. Da un lato la IBM che vantava grosse macchine che permettevano un controllo sempre più stretto delle attività d’impresa. Dall’altro, a Parigi, un professore del Conservatorio nazionale delle Arti e Mestieri, Bruno Lussato, difendeva i piccoli calcolatori che mettevano l’IA alla portata di tutti. Oggi, quel dibattito si è esaurito.

Sono indispensabili entrambi. Determinante è mettere in comunicazione come in un transfert freudiano fra di loro tutte le macchine, come avviene nel nostro sistema nervoso.

L’epoca del potere e dell’organizzazione piramidale che ne derivava era superata. La Cina contemporanea ha scandito il tempo di sostituirle in un’organizzazione di rete (5.0), dove l’IA e l’iniziativa, distribuite dappertutto, permettano di spartire un «potere» che non smette di spostarsi, sempre in funzione delle necessità e delle circostanze dettate dalla supremazia cinese.

In Giappone agli inizi degli anni ‘70 si è cominciato già a fabbricare robot capaci di riconoscere, tra tanti pezzi diversi, quello di cui avessero bisogno, di afferrarlo, di disporlo convenientemente e di assicurarne il montaggio con una precisione e una regolarità che superavano di molto quelle dell’operaio comune.

Ma ad una condizione: che questi pezzi fossero allineati gli uni accanto agli altri. Se si fossero presentati alla rinfusa, l’automa sarebbe entrato in confusione, non distinguendo più nulla.

Secondo gli esperti di informatica di allora ci sarebbe voluto ancora del tempo affinché imparassero a isolare un volume semplice da un caos di forme. Il cervello dell’essere umano più ordinato possiede ancora oggi quindi risorse che non sono ancora alla portata dell’IA. La Cina contemporanea si è avvicinata molto più degli Stati Uniti e dell’Europa a questi standard informatici, riducendoci in pochi anni al ruolo di comprimari dell’economia mondiale.

Comunque una pericolosa spada di Damocle pende sulla testa della Cina capitalistica: le grandi rivoluzioni che hanno scosso le diverse epoche storiche cinesi, l’ultima quella maoista che mantenne le ultime ideologie marxiste ereditate dal XX secolo. Il governo centralizzato cinese deve evitare nella maniera più assoluta che germi reazionari o dissidenti agli scopi del partito centrale, possano crescere o consolidarsi all’interno del paese ed è per questo che nel silenzio occidentale, tranne alcuni paesi come Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia, sono state attuate forme di coercizione sociale come quella avvenuta nei confronti del Tibet.

Con lo sviluppo imponente dell’informatica, siamo entrati in un universo dove il segno si è sostituito alla materia. Progressivamente, i numeri, le idee, le immagini e i suoni saranno trasformati in lunghe serie di «zero» e «uno» che si potranno gestire, manipolare, scambiare a piacimento.

Le macchine, ahimè, funzioneranno da sole. Al posto del denaro contante, avremo carte di pagamento magnetiche. Faremo la spesa per telefono dopo aver scelto i prodotti sullo schermo del televisore o di uno smart-phone. Si lavorerà a domicilio con un terminale collegato a banche dati.

Per la prima volta, attraverso il calcolatore, un’intelligenza astratta è posta in presa diretta con la realtà concreta. E di qui nasce la convinzione di molti che essa sia chiamata a regnare senza condizionamenti sul mondo che verrà.

La speranza è che sia vero anche il contrario. Dal giorno in cui, grazie alla macchina a vapore, al motore a scoppio, all’elettricità diffusa, gli esseri umani hanno potuto disporre di tutta la «potenza» di cui avevano bisogno; da quel momento hanno smesso di sforzarsi fisicamente. Per questo si sono rifugiati nello sport, dove la forza fisica è diventata un oggetto di esibizione. Nello stesso modo, dal momento in cui il calcolatore avrà messo l’IA alla portata di tutti, questa perderà importanza a vantaggio di altre qualità. Infatti si diceva già negli anni ‘80, che il tecnico di un domani prossimo con cui confrontarsi non sarebbe stato una testa d’uovo, destinata a essere sconfitta dal calcolatore, ma, al contrario, qualcuno con qualcosa che il computer non avrà mai: l’audacia, l’immaginazione, il senso del rapporto inter-personale. Un computer non sarà mai in grado prendere un’iniziativa emotiva o sentimentale, formare una squadra eterogenea di individui, galvanizzare le loro buone intenzioni o virtù, di costituire le maglie della nuova rete della futura società che sia conciliabile come il diplomatico, il pedagogo, il filosofo, l’animatore sociale.

Il confronto con la realtà contemporanea che la Cina sta imponendo, ci ha convinti sempre più che non esistano mestieri stupidi, ma mestieri che invecchiano e muoiono. Già dagli inizi degli anni ’90, le segretarie che non avessero imparato tutti i segreti e le risorse dei videoterminali non avrebbero più trovato un impiego.

La modalità è sempre stata simile. Infatti, l’invenzione dei caratteri della stampa ha provocato la disoccupazione dei copisti. Nuova, semmai, è l’accelerazione del cambiamento. Agli inizi del secolo XX, quando si imparava un mestiere, questo era per la vita. Dalla fine della seconda guerra mondiale, invece, le nuove tecniche si affacciano a ondate di 10-15 anni ciascuna. Basta dare un’occhiata a tutto ciò che si sta preparando nei laboratori di ricerca per ricavarne la certezza che questa velocità di cambiamento non sta certo rallentando. Gli artigiani che riparavano gli apparecchi radio hanno dovuto mettere la mani nei televisori e oggi sui computer. Il motto ieri e oggi era: adeguarsi o rischiare l’emarginazione.

Si può anche cercare di opporre una flebile resistenza e ci si può aggrappare alle proprie abitudini, cercando di difendere così il posto di lavoro. Ma non si può arrestare il cosiddetto progresso, con il rischio di perdere anche il beneficio delle cosiddette novità.

Tutto inesorabilmente è divenuto un «cosiddetto», ossia, un’apparenza che nasconde verità e consapevolezze ataviche che sono diventati dei ritornelli insignificanti per la maggioranza dell’umanità.

Quel «cosiddetto» transfert sociale tra Germania nazista, Giappone post bellico, e Cina imperialista si sta cristallizzando prepotentemente ai giorni nostri, dove persino un’epidemia denominata Covid-19 ha contribuito ad accelerare questa fase di un «transfert» epocale. Purtroppo anche in Occidente prevarrà una «cinesizzazione» imponente come quella che si è operata in Tibet.

Il deterioramento o la decadenza delle grandi democrazie non sono avvenuti in conseguenza di fatti esterni alle democrazie medesime, ma interni a esse, così avverrà anche in Cina, dove la prossima e interna rivoluzione cinese decreterà la fine del suo imperialismo opprimente.

LA «GRANDE CRISI» DEL 1929 COMPARATA CON QUELLA DEL 2029

L’anno 2029 è indicativo, poiché la prossima crisi finanziaria mondiale si manifesterà certamente qualche anno prima di esso. Ma teniamola come riferimento relativo, perché la «grande crisi» inizia nel 1921, con i primi segnali di recessione.

Keynes, Kalecki, Hodson, l’eccezionale servizio studi della Società delle Nazioni, l’originale e dimenticato Timoshenko, sono i testimoni e cronisti di quell’evento.

Inoltre, occorre ricordare la cosiddetta influenza spagnola che fu accertata nel 1918 e la sua inquietante coincidenza temporale, esattamente un secolo dopo, con il covid-19 del 2019.

Non si tratta di superstizione o di un vaticinio a buon mercato. Sia i mercati finanziari sia le epidemie hanno avuto dei cicli non prevedibili, ma probabili.

Keynes e Kalecki scrivevano, ad esempio, spunti non trascurabili di verità: “Entrerà in scena il popolo hitleriano - scriveva il Kalecki nel 1931 - e si sostituirà ai capitalisti tedeschi nel proclamare la moratoria dei debiti esteri”. Keynes osservava che: “[…]vi sono limiti a quello che un singolo Paese può fare per proprio conto se altri Paesi non si muovono all’unisono con esso”.

Per quegli osservatori l’assenza di una leadership internazionale capace anche di fungere da «raccoglitore di ultima ratio» sarebbe stata la causa principale della severità e della durezza di quella «grande crisi». Si evince he ci troviamo nelle medesime condizioni però aggravate dalla velocità degli eventi in progress. Il fenomeno va analizzato non solo nell’ottica tradizionale delle relazioni tra Europa e Stati Uniti, ma inquadrato nel complesso dei rapporti di scambio che li includevano come partners son trascurabili; invece, molti ritengono che una delle cause non minore e trascurabile della depressione verificatasi negli medesimi paesi industrializzati fosse causata da una diminuzione di prezzi nei paesi produttori di materie prime, colpiti a partire dal 1925,

Malgrado fisiologiche ricorrenti dichiarazioni contrarie, pare che molti riferimenti degli anni Trenta siano divenuti patrimonio comune di Governi e Banche centrali, sebbene, forse, queste lezioni non appartengano ancora oggi al patrimonio culturale diffuso tra la pubblica opinione, seppur colta e informata. Andando indietro di 7 secoli, a partire dal 1341 inaspettatamente e nel giro di soli sei anni, una crisi di enormi proporzioni travolse tutte le Compagnie fiorentine e creò di riflesso gravi difficoltà ai mercanti-banchieri delle altre città italiane. Le grandi ditte di Firenze dovettero convincersi che i modi e i ritmi di produzione e le tecniche commerciali e finanziarie che la loro città aveva sviluppato erano un fatto eccezionale in un mondo, italiano, europeo e mediterraneo, che, salve poche altre eccezioni, era rimasto per larga parte «feudale».

Tornando al XX secolo, il 10 agosto 1893 si creava la Banca d’Italia attraverso la fusione della Banca Nazionale e delle due banche toscane in difficoltà finanziarie. Alla neo-costituita Banca d’Italia venne affidata la liquidazione della Banca Romana e un certo potere di supervisione sulle due restanti banche di emissione - il Banco di Sicilia e il Banco di Napoli - e solo assai più tardi, con la legge del 1926, la Banca d’Italia fu riconosciuta come l’unica banca di emissione del Paese.

Ma questo intervento, pur molto importante per il futuro del Paese italiano, non mise subito la Banca d’Italia nella posizione di far fronte alle difficoltà del sistema bancario italiano e alla «grande crisi» che si manifesterà nel 1929.

Se dal baratro della «grande crisi» degli anni Trenta del XX secolo nacque un modello di sviluppo capace di battere il comunismo sovietico, oggi quello cinese si è battuto non da solo ma con la complicità ingenua dell’Occidente, perché la Cina ha iniziato un new deal di un neocapitalismo cinese, senza le funzioni e il sostegno democratico come quello americano. Le premesse di una nuova «crisi» finanziaria ci sono tutte, sebbene attenuate dallo sviluppo della Cina, che suo malgrado non potrà evitare o stare fuori da questa nuova «crisi» in fieri.

Le condizioni saranno senza dubbio differenti rispetto ad un secolo fa, perché l’esplosione della «crisi» sarà repentina e imprevedibile, perché nel ’29 fu più lenta per le inferiori possibilità di trasmissione dei dati finanziari. Oggi la medesima velocità d’informazione sarà la causa principale della scintilla che farà esplodere la prossima «crisi» finanziaria. Come tutte le esplosioni che si rispettino, pensiamo a quella atomica, sarà il flusso di ritorno dell’esplosione il più devastante.

Con tutta probabilità un grande conflitto armato mondiale sarà inevitabile proprio per un’instabilità fisiologica che si genererà all’interno delle grandi potenze militari che si sono stabilizzate in questi ultimi due decenni.

Ben Gurion disse alle origini dello stato d’Israele che una pace sbagliata fosse meglio di una guerra giusta. Quanto Cina, Russia e Stati Uniti siano consapevoli di questo poco importa, perché come tutte le guerre esse nascono da cause futili o quasi precostituite.

La cosiddetta opinione pubblica ne sarebbe risucchiata da un nascente patriottismo o nazionalismo la quale metterebbe in evidenza tutte le sue frustrazioni e incomprensioni esistenziali accumulate in questi ultimi due decenni dell’inizio del terzo millennio, sicché muoia pure Sansone con i Filistei. I Filistei sarebbero i cinesi ovviamente.

Globalizzazione e localizzazione sembrano essere state in opposizione; la prima è stata fortemente voluta dall’Occidente, ma ripresa e sfruttata abilmente dai cinesi oggi, la seconda seguirà inevitabilmente ad un prossimo conflitto mondiale, poiché la devastazione di una guerra è sempre imprevedibile, visti gli umori e antipatie in campo.

Il XX secolo è stato un secolo complicato, portatore di grandi conquiste, ma anche di grandi tragedie. Vi sarebbe da rallegrarsi che sia stato un «secolo breve», secondo la definizione di Hobsbawm, ma l’ironia in questo caso è fuori luogo. Di fatto, per l’economia mondiale è stato un periodo nel quale la globalizzazione occidentale ha raggiunto un picco straordinario proprio alla vigilia della grande Guerra, come ha precisamente descritto Keynes nel 1920, per poi precipitare negli abissi del primo e del secondo conflitto mondiale, con in mezzo il periodo cupo della depressione e del protezionismo commerciale, che ha riportato indietro l’orologio della storia economica relativa alla globalizzazione medesima.

Nei fatti, molti obiettivi sono stati raggiunti, ma altri si sono rivelati illusori o, se non altro, provvisori. Il sistema dei cambi fissi inaugurato nel 1944 a Bretton Woods ha resistito solo poco più di trent’anni, poiché già a metà degli anni Sessanta iniziava a costituire una coperta troppo corta per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo di molti Paesi, con gli Usa in prima fila, ma con il seguito di Europa e Giappone. L’abbandono dei cambi fissi, seguito alla decisione nixoniana del 1971 di spezzare il legame fra dollaro e oro, ha costituito il punto iniziale di una nuova fase che si è successivamente sviluppata attraverso molti eventi epocali, primo fra tutti la liberalizzazione finanziaria avviata da Reagan e la Thatcher, che ha radicalmente modificato le opportunità offerte agli operatori sul mercato, determinando di fatto la nascita di un sistema finanziario globale, su cui il controllo da parte delle autorità nazionali e internazionali è divenuto assai meno praticabile, con la inevitabile conseguenza dell’insorgere periodico di «crisi» finanziarie di portata globale, anche se di natura geneticamente alquanto diversificata.

Il mercato finanziario globale della fine del XX secolo costituisce un evento storico la cui portata è ancora da comprendere nella sua interezza, ma di sicuro costituisce un fenomeno di straordinario progresso nelle relazioni economiche e finanziarie internazionali. Ma come la rivoluzione industriale riuscì a creare un formidabile balzo avanti nella realtà economica del XVII e XVIII secolo e si trascinò dietro molte contraddizioni e inconvenienti non del tutto risolti fino a oggi, anche la rivoluzione finanziaria della fine del XX secolo porta in sé i germi di situazioni di «crisi» che hanno creato e creano tuttora instabilità e provocano danni che occorre imparare a controllare presto e annullare nei limiti del possibile etico-morale.

Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto dispiegarsi delle gravi «crisi» finanziarie come quella del dollaro della metà degli anni Ottanta, quella dello Sme all’inizio del decennio successivo, o le gravi crisi dei Paesi in via di sviluppo in vari stadi di questa storia. Oggi, in presenza di un dollaro forse sottovalutato se non svalutato, di un euro apparentemente subordinato e debole, di uno yen giapponese in difficoltà cronica, di uno yuan cinese in forte risalita e di ricorrenti «crisi» finanziarie a rotazione fra America Latina, Asia ed Est Europa, come proporsi di fare fronte all’instabilità rovinosa dei mercati futuri condizionati dalla Cina emergente?

La Cina dello yin e dello yang, del femminile e maschile in senso filosofico, non esiste più. Si poteva ritrovare nei parchi e nelle sale da tea dove si riunivano gli anziani, nei mercati e nelle stazioni, tra i taxi che hanno preso il posto dei risciò, dei libri tascabili appesi con un cordino a una canna di bambù sulla bancherella del libraio, l’opera di un Till Eulenspiegel orientale con Vaslav Nijinskij che cattura i serpenti suonando il flauto, i simulacri funebri da bruciare per accompagnare la vita quotidiana dei defunti nell’aldilà, finti computer, finti telefoni, perfino finte monete come argent de poche celeste. Oggi il denaro è diventato il vero mito della nuova Cina dal 1985, tutta tesa verso il business.

Il motto: «Ricco è bello», è sollecitato da migliaia di manifesti sui muri e l’antica armonia filosofica cinese oggi fatica a farsi strada nel conflitto tra competitività smisurata e mancanza di libertà d’espressione o di un’iniziativa politica individuale. Europei e americani facciamo fatica a riconoscere che l’ascesa vorticosa dell’economia cinese sia stata il frutto più della nostra ingenuità occidentale che della loro abilità finanziaria.


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