Inverno
2014
Questa
novella la scrissi in occasione del primo concorso letterario
organizzato in università di Bergamo da parte della Luberg
l’organizzazione universitaria dei laureati nell’università di
Bergamo. Fu scartata! I riferimenti indiretti erano alla relatività
Generale e Ristretta di A. Einstein, e il libro Atom
di I. Asimov. Rimasi dispiaciuto dentro di me.
Il
rimando alla storia della perla fu un omaggio alla memoria della mia
mamma Margherita Basevi Mazzotti.
IL
CROMONAUTA DELL’ANTIMATERIA
di Argeo Shlomo Basevi Magi
(Autore di:
Scriveva
Ovidio per il 1° di gennaio: “È un giorno fortunato quello che
sorge: fate attenzione alle parole che dite, in un giorno felice si
devono pronunciare solo parole felici. Non vedi come l’aria riluce
di fiamme fragranti? L’oro dei templi riverbera il bagliore delle
fiamme, sprazzi di luce si irradiano fino alle parti più alte degli
edifici[...] Dall’alto della sua rocca Giove volge lo sguardo
sull’intero universo e non vede nulla che non appartenga a Roma.
Salve, giorno felice, che tu possa ritornare sempre migliore”.
(Opere. Fasti e frammenti, Publio Ovidio Nasone)
In
questi ultimi vent’anni la bicicletta è stata il mio inseparabile
mezzo di trasporto cittadino. Così, progressivamente ho abbandonato
l’uso della mia automobile, fino alla sua eliminazione, o meglio,
rottamazione.
Invece,
non ho mai abbandonato l’appuntamento con una colazione mattutina a
base, di tea, jogurt, fette biscottate integrali, marmellata di
frutta fatta in casa, una barretta di cioccolato fondente e miele.
Così,
si è quotidianamente scandito il mio risveglio all’interno di una
comunità cittadina, che aveva subito una forte metamorfosi sociale
da quando mi aveva «adottato da bambino». La mia è stata
un’adozione simbolica, dopo che la mia famiglia si era trasferita
da Ascoli Piceno verso il nord Italia e dopo una permanenza di cinque
anni in campagna a Cologne nel bresciano presso i miei nonni materni,
si trasferirono definitivamente a Bergamo.
Come
vedremo, anche il «cromosoma cosmico» Atom - così l’ha chiamato
Asimov - ci ha apparentemente adottati e così noi abbiamo adottato
lui: in breve siamo stati uno la conseguenza dell’altro.
Quindi,
in un giorno qualunque, di un anno e un secolo qualunque, di un
millennio qualunque, una mattina qualunque si era affacciata sulla
città con i colori e la temperatura dell’autunno che semplicemente
si riproponevano in tutta la loro varietà e fantasia.
L’aria
fresca del mattino si mescolava al ricordo estivo delle ultime
rondini che avevano rallegrato, e fortunatamente ancora una volta, il
cielo della mia città con il loro richiamo festoso. Il rumore di un
aeroplano, diretto chissà dove, disturbava l’incanto e
contemporaneamente il moto aereo delle nubi di quella mattina
qualunque, di quel giorno qualunque, di una vita qualunque d’autunno.
Mai, comunque, nessun aeroplano potrà eguagliare la nobiltà e
l’eleganza del volo delle rondini.
Qualche
nube cominciava a nascondere le sembianze sfumate di ciò che restava
della luna, sopraffatta dalla luce del sole immanente.
Sin
da quando ero bambino lo scolorire delle foglie d’edera autunnali
hanno influenzato il mio sentimento per la loro lenta e progressiva
metamorfosi dal colore rosa fino ad un arancione intenso, rendendole
inconfondibile nel loro genere.
Perciò,
la mia simbiosi con la stagione autunnale si era identificata
inesorabilmente nel colore delle foglie dell’edera, quanto quella
del glicine in quella primaverile.
È
strano come colori e profumi siano indelebilmente custoditi nella
nostra memoria, in un magazzino biogenetico che non sbaglia mai nella
sua ricerca. Simone Weil scriveva: “Le sensazioni prodotte dai
colori variano da persona a persona: le impressioni sono soggettive,
ognuno di noi ha il proprio sguardo sul mondo”.
Per
lei essere semplici consisteva nel cercare di non rendersi conto
dell’esercizio delle proprie virtù. Forse, perché la virtù sta
nell’esercizio della semplicità?
Pitagora,
che oltre a essere stato uno dei primi grandi matematici della storia
umana, imitato ma mai ripetuto è stato anche un grande filosofo,
dice: “Nel cosmo sono distribuite in parti uguali luce e tenebre,
caldo e freddo, secco e umido; se di questi prende il sopravvento il
caldo si ha l’estate, se il contrario è il freddo si ha l’inverno.
Se invece restino in equilibrio, si hanno le stagioni più belle
dell’anno, da un lato il suo fiore, che è la salutare primavera,
dall’altro il declino, che è l’autunno apportatore di
malanni”(Pitagora, Versi aurei, Edizioni Medusa, Milano, 2005,
p.45).
I
nostri sensi principali collaborano e agiscono in perfetta
individualità e in costante collaborazione con la nostra percezione
totale. Credo sia comune a tutti, che tra tutte le manifestazioni
naturali che ci circondano e che coesistono con noi sin
dall’infanzia, solo alcuni colori, profumi, suoni, restino
indelebilmente legati alla nostra memoria, come simulacri della
nostra esistenza. In autunno, tutte le foglie cadute sul suolo
cittadino costituivano e conferivano ad esso un romantico tappeto
naturale, ma subito era rimosso dalle autorità cittadine per motivi
o esigenze di carattere estetico e di viabilità.
Del
resto Pitagora, oltre a Isaac Asimov, mi ha influenzato sulla
complementarietà tra le stagioni climatiche che noi viviamo
quotidianamente, e le stagioni di un universo che, invece, sembra non
esistere intorno a noi. Ed è per questo motivo che all’idea delle
quattro stagionalità terrestri ho immaginato quella di quattro stadi
anche nel contesto dell’universo, affinché risultassero
complementari tra loro.
La
genialità esoterica di Pitagora resta indiscussa ancora oggi, ma va
necessariamente riportata al tempo di 2500 anni or sono, quando
l’umanità cominciava nelle sue varie parti del pianeta ha prendere
coscienza di esserci non solo su di un pianeta chiamato Terra, ma
anche in una spazialità chiamata cosmo, sebbene fosse solo
intuibile.
Raramente,
invece, in città si poteva cogliere il rumore delle foglie mentre
cadevano sul suolo, poiché i rumori e gli odori di una civiltà
degradata nei suoi principi naturali di una sana convivenza con la
natura vegetale, le si erano inesorabilmente sovrapposti.
Il
ricordo correva ai giorni della mia infanzia nella casa di campagna
dei nonni materni, quando in autunno sentivo il rumore delle foglie
che cadevano sui prati mentre camminavo tra esse, divertendomi a
spostarle con i piedi, provocando quel fruscio caratteristico che per
il loro sfregamento emanava l’odore di rugiada che solo in campagna
si poteva ascoltare e gustare.
Purtroppo
il percorrere in bicicletta le strade della città, non consentiva di
estraniarsi con la propria fantasia, poiché i mezzi a motore erano i
veri padroni delle strade cittadine e non i loro autisti, i quali
purtroppo sembravano ipnotizzati da semafori e abitudini, forse più
vicini alla soglia della depravazione e alienazioni umane, che alla
semplicità della natura. Ciononostante, bisogna essere soli per
essere se stessi.
La
bicicletta è ed è stato senza dubbio il mezzo di trasporto più
semplice per farci sentire soli. Dai bambini, ai giovani, e dalle
persone mature agli anziani, essa viene usata ormai da lungo tempo.
Ma come può il tempo essere lungo o corto, se non nei nostri
pensieri? Esso è lungo o corto semplicemente nella nostra
immaginazione.
Simone
Weil scriveva nei suoi Cahiers: “Il tessuto del mondo è il tempo,
e che cos’è il tempo al di fuori del mio pensiero? Che cosa
sarebbero il presente e l’avvenire senza di me che li penso? E se
essi non sono niente, l’universo non è niente, infatti che cosa
vuol dire esistere un solo istante? Allora potrei io non essere
associato alla creazione? Ma bisogna che io pensi il tempo come un
co-creatore. E come?” Allora il tempo può essere il nostro
narratore?
La
bicicletta, tuttavia, non sporca, non inquina e inoltre è
raccomandata dai medici perché, salvo incidenti di percorso
imprevisti, contribuisce a mantenerci in forma.
Metaforicamente
essa ama e cerca il silenzio o quei rumori, quei suoni del paesaggio
cui sembriamo essere divenuti sordi: lo sciabordare dell’acqua nei
fossi, lo stormire delle fronde e il frullio di un paio d’ali. Ma
tutto questo in solitudine, è proprio ciò che diventa libertà, la
nostra intima libertà. La bicicletta è un momento di
autoconoscenza, di autoriflessione, di autoriscoperta, il coraggio di
restare solo con se stessi, almeno per un poco: quasi uno schiaffo
irriverente alla moltitudine spersonalizzata, e ai suoi riti e
simulacri altrettanto spersonalizzanti.
Il
piacere quasi infantile di percorrere una stradina cittadina di
ghiaia bianca, ma il dispiacere di scrutare al di là di una rete
metallica il gran serpente grigio e asfissiante della strada
d’asfalto e di veleni, o la sagoma del treno ritagliato in scuro
contro l’orizzonte e che pare perdersi nella linea retta
dell’infinito, in una corsa senza meta.
Forte
fu la mia emozione, quando alcuni anni più tardi scoprii che quel
treno giocoso era stato anche il protagonista di una drammatica
realtà: la Shoah.
Intanto,
ognuno è lì, con i suoi pensieri, dentro un mondo che pensa di
conoscere o che sta per conoscere, perché, comunque, esso è
disposto a svelarsi e a dichiararsi lentamente il suo mondo reale.
Pertanto,
anche la cosiddetta vacanza diventa soprattutto rottura dell’impegno
sociale quotidiano, fuga dall’economia dei giorni grigi,
riappropriazione insomma di una libertà individuale o meglio di una
libertà chiusa in una gabbia; allora la bicicletta diventa il
destriero ideale della maggioranza di queste libertà e per questa
libertà.
Vicino
alla mia abitazione c’è ancora una piccola strada sterrata o
comunque poco frequentata che si snoda nell’insolito silenzio della
campagna cittadina residuata, dove sembra di respirare l’aria
ancora fresca della mattina ed il verde dei prati rimasti è ancora
frequentato da uccelli, che purtroppo, lentamente si stavano
anch’essi naturalizzando con la città.
Ai
cittadini frenetici, la campagna può sembrare noiosa perché si è
persa l’abitudine al silenzio del nostro pensiero, ma a poco a poco
una tranquillità serena ci avvolgerà e potremmo ritrovarci nei
nostri pensieri sparsi, nei nostri sogni, anche nei nostri voli
disattesi con l’immaginazione. Intanto essi si ritroveranno in quel
microcosmo frantumato dalla quotidianità cittadina, mentre il
respiro si farà più ampio e il pensiero si spargerà intorno a
tutti.
Così
facendo, potremmo ritrovare anche un pizzico della nostra salute
mentale. Del resto, la bicicletta è un prodotto tecnologico e
l’andare in bicicletta rappresenterebbe una forma bio-etica di
reagire come ultimo baluardo contro l’irresponsabilità umana, e
anche verso il nostro benessere, soprattutto mentale.
Ecco
l’intrusione educata del silenzio, che ai giorni nostri sembra
diventata una merce rara, tanto che l’idea più banale sia divenuta
quella di circoscriverlo ad un ambito senza parole. Del resto, il
nostro cosmo è sicuramente silenzioso, ma alle nostre orecchie, che
non sono adeguate, forse, agli ultrasuoni, che, invece, vengono
percepiti dagli animali.
Questo
è un fatto conclamato, ma che ancora non ha trovato una spiegazione
in termini evoluzionistici. Gli esseri umani, infatti, posseggono
l’uso della parola e anche dell’intelletto, ma non percepiscono
suoni al di fuori di una precisa scala di valori.
Talvolta
ho pensato ad un essere umano che possedesse entrambe queste due
possibilità, e allora ho cominciato a far volare ancora la mia
fantasia.
Pertanto,
chi ha inventato la bicicletta? L’architetto milanese Giuseppe
Genazzini, collezionista di biciclette diceva: “Prescindendo dallo
stupefacente disegno lasciatoci da Leonardo sul retro di un foglio
del Codice Atlantico, non si è mai posto un vero problema”. La
bicicletta, come tanti altri oggetti utili o inutili inventati dagli
esseri umani, erano già presenti nella nostra memoria genetica, non
come banale forma deterministica o fenomenologica, ma come necessità
legate essenzialmente, come intuì genialmente Simone Weil, alla
forza di gravità. Infatti lei intuì la connessione inscindibile del
nostro pensiero con la forza di gravità.
Sebbene
sia ancora un mistero scientifico su come la bicicletta possa
rimanere in equilibrio mentre sia in movimento.
Del
resto, scienza e filosofia non hanno mai discusso di biciclette e
tanto meno di ciclisti, poiché la bicicletta agli inizi del XIX
secolo fu anche bandita e vietata nell’area cittadina. Sappiamo che
tra filosofia e scienza il dialogo non è mai stato facile, ora in
discussione ci si mette un tema delicato come il rapporto tra etica e
scienza e su come quest’ultima influisca concretamente sul
quotidiano e sui nostri modi di vita, così con tutti i risvolti
sociali e politici che il tema comporta la comprensione tra le due
categorie risulta oggi ancora più difficile.
Quindi,
a stimolare sia filosofi sia scienziati in materia di questioni
morali, è stato soprattutto lo sviluppo recente delle scienze
biologiche e l’immediata traduzione delle nuove scoperte in scelte
tecnologiche applicabili all’essere umano.
Ad
esempio, sia la possibilità della fecondazione in vitro sia la
possibilità di agire direttamente sul Dna e sul cervello umano,
possono far insorgere veri e propri dilemmi etici, in forme del tutto
inedite per l’umanità.
Riemergono
così, le questioni, troppo spesso rimosse, del ruolo del medico e
delle scienze biomediche e diventa attuale la valutazione morale dei
limiti da imporre alla loro utilizzazione. Infatti, con tutta la loro
drammaticità, sono riemersi anche i dilemmi sulle scelte «estreme»
dell’aborto e dell’eutanasia.
Tutto
ciò spiega il nascente interesse, anche in Italia, per la bioetica,
una disciplina nata negli Stati Uniti una trentina d’anni fa (di
cui esiste da circa dieci anni una enciclopedia, l’Enciclopedy of
Bioethics), e che si è diffusa da qualche anno in Francia e in
Belgio.
Con
il passaggio da una visione statica del sistema nervoso e del
cervello, ad una visione cosiddetta evolutiva, si è sempre più
sviluppata la pratica di agire dall’esterno su tale sistema:
l’esempio più comune è rappresentato dall’uso e abuso degli
psicofarmaci.
Le
neuroscienze, pur contribuendo apparentemente a migliorare la qualità
della vita, hanno posto al tempo medesimo problemi etici del tutto
inediti sui quali filosofi, scienziati e sociologi dovrebbero
concentrare maggiormente la loro attenzione.
Il
premio Nobel Rita Levi Montalcini ha affermato che l’attuale
ricerca neurobiologica, con il suo carattere spiccatamente
interdisciplinare, potrebbe costituire le basi per un nuovo
umanesimo. Sempre tra i biologi ricordiamo Lewis Wolpert che ha
sostenuto, invece, la tesi secondo cui gli effetti della scienza
sulla società e sui valori non sarebbero poi così evidenti.
Per
Emile Zuckerland, biologo di Palo Alto (USA), invece, sono i geni a
generare i valori, i quali vengono anch’essi fatti rientrare nel
paradigma evoluzionista.
Un’altra
ipotesi riduzionista è attribuita a Giorgio Prodi, secondo il quale
l’essere umano sia «geneticamente determinato a essere libero».
Credo
che le teorie riduzionistiche siano solo apparenza, quando essa si
riduca alla sola superficie delle cose, senza entrare nel profondo
della biologia umana; dire che l’essere umano sia «geneticamente
determinato a essere libero» non significa nulla o può significare
tutto: non si può essere liberi dalla genesi dalla quale siamo stati
predisposti (determinismo genetico) e, quindi, è giusto parlare di
libertà sociale o comportamentale (ad esempio fare male o bene), ma
non si può paragonare questa libertà a qualcosa di genetico. Noi
non siamo liberi affatto di andare a vivere sulla Luna o su Marte,
non perché ci manchino i mezzi di trasporto, ma perché ci mancano
le caratteristiche genetiche.
Il
premio Nobel Ilya Prigogine, invece, non condivideva i temi
dell’indeterminismo, dell’irreversibilità di alcuni fenomeni
biologici e della necessità di una «nuova e natura, oltre che tra
biologia, fisica e scienze umane» alleanza tra essere umano
Anche
se dal punto di vista di Popper tutto il suo Poscritto alla Logica
della scoperta scientifica del 1934-35 fosse teso a riesaminare
alcuni dei problemi principali, sono venuti così al pettine i nodi
sulla falsificabilità, sull’induzione, sull’approssimazione alla
verità o vero-similitudine, tanto per citarne alcuni tra i più
significativi.
Resta,
come impressione generale, l’idea che Popper abbia confermato la
validità del suo metodo di congetture e confutazioni, per cui noi
apprendiamo da nostri errori attraverso un meccanismo di feedback
continuo.
Come
spesso accade per le opere dei grandi pensatori, il Poscritto di
Popper ha avuto effetti sia all’esterno sia all’interno della
storia della filosofia propriamente intesa.
Da
un primo punto di vista, infatti, ha dato un contributo notevole a
questioni non certo generali come quelle della creatività umana.
Popper
era altresì convinto che i suoi argomenti fossero contro l’induzione
e a favore dell’indeterminismo e fossero indispensabili per una
visione libertaria e razionale dell’uomo. Per lui il libero
arbitrio non sarebbe stato possibile in un universo puramente
deterministico, e questo, anche se posto come corollario di tesi
scientifiche, è un argomento che riguarda ancora oggi direttamente
la filosofia morale e politica non è sostenibile perché, come
storici e filosofi della scienza hanno variamente dimostrato, la
valutazione delle teorie scientifiche da parte degli scienziati non
si è dimostrata estranea da considerazioni di valori parziali.
Una
teoria può essere apprezzata soprattutto per la sua semplicità, per
la sua economicità, per la sua capacità di prevedere fatti nuovi,
ma anche, come scrisse Heisenberg, per la sua bellezza.
Questi
valori non sono meramente epistemici: nel caso della biologia, per
esempio, la validità di un’ipotesi, spesso rimanda a
considerazioni intorno alla legittimità morale di certi esperimenti.
Tra
scienza, etica e religione sono sorti inevitabilmente conflitti, che
non sono affatto un male, perche contribuiscono a far rientrare nella
pratica scientifica l’elemento della responsabilità dello
scienziato, che il dissidio tra scienza ed etica aveva invece
eliminato.
Ma
a questo punto sorge il problema di chi potrebbe imporre vincoli
etici alla cosiddetta «impresa scientifica».
Un
controllo esterno potrebbe anzi favorire nuove forme di oscurantismo,
così un’autoregolamentazione da parte degli scienziati, poiché
dovrebbero, nell’ambito della loro formazione, dare sempre più
importanza alle tematiche morali.
Evandro
Agazzi, che nella sua relazione su «Libertà o regolamentazione
nella tecnologia e nella medicina?», sostiene che la libertà dello
scienziato non sarebbe affatto ostacolata dall’esistenza di norme
imposte dall’esterno, perché partendo dalla distinzione
concettuale tra scienza e tecnologia, mostra quanto quest’ultima
sia ormai del tutto separata dalla saggezza, infatti, la pura
razionalità tecnologica, parziale e strumentale, non basta per
affrontare i problemi più vasti che l’essere umano si pone
maggiormente oggi.
Purtroppo
quale degli esseri umani si pone questa riflessione morale: quello
che va in bicicletta o quello che gliela fornisce?
Kant
scriveva nella Critica della ragion pura: “[…]e nessun principio
può essere assunto con certezza in una sola relazione, senza che sia
stato, medesimamente, indagato nella totalità delle relazioni con
l’intero uso puro della ragione”.
Le
mie giornate si alternavano tra la libreria universitaria con cui
collaboravo e l’Università che mi ospitava. Qualche giorno
addietro avevo già notato una locandina in Università: un incontro
accademico per un’ulteriore occasione nel confrontarsi su tesi e
antitesi, ossia, sulla validità della logica e dell’etica,
passando per la filosofia.
Era
inoltre indicata una breve lista di relatori della nostra Università
e non, come pedagogi, antropologi e anche cultori della epistemologia
della complessità e della scienza.
Mi
chiedevo in passato e tutt’oggi continuo a interrogarmi spesso, sul
perché in tutti gli anni di frequentazione nell’università, non
mi fossi mai imbattuto in una conferenza sulla semplicità. Si erano
succeduti incontri di tutti i tipi, ma la mia opinione era che l’idea
di semplicità fosse per la maggioranza degli intellettuali futile o
forse imbarazzante anche per le eterogenee autorità scientifiche.
Allora,
perché non scrivere una favola, che sembri rivolta ad un pubblico
infantile, ma che, invece, riguardi essenzialmente il pubblico
adulto.
Tutto
ebbe inizio tanti miliardi di anni-luce or sono. Però, analizzeremo
ancora cosa significhi il termine tutto o alcuni miliardi di
anni-luce. Ciononostante, un cromonauta del Tempo-Spazio iniziava a
percorrerli. Del resto come poteva un «cromosoma cosmico» avere la
percezione del Tempo, che, invece, stava solo per iniziare.
«Atomos»
in memoria di Leucippo o «Atom» di Asimov (L’universo invisibile,
(1992) Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994, p.4), quel «cromosoma
cosmico» si chiamava, e sebbene lui non lo sapesse, lo avrebbe
saputo solo più tardi. Ebbene: Tempo e il Cromonoauta iniziarono
insieme e continuarono il viaggio per un po’ di tempo uniti.
Probabilmente
Tempo e Cromonauta sono stati due gemelli speciali, quei gemelli che
successivamente avrebbero avuto il Tempo sia cosmico sia terreno a
loro sfavorevole.
Perché
sfavorevole? Perché l’essere umano non è ancora riuscito a
combinare i valori giganteschi, quasi infiniti, di un Tempo cosmico e
i valori finiti di un Tempo planetario.
Quest’ultimo
a sua volta ci è sembrato il più realistico, e perciò gli esseri
umani lo hanno tranquillamente preso come riferimento assoluto.
Infatti il Tempo-Spazio cosmico fino a poco tempo fa è stato
valutato in anni-luce.
Ecco
il motivo per cui l’idea di luce è divenuta essenziale per ogni
forma vivente su questo pianeta denominato Terra. Azimov, come tanti
altri scienziati si era chiesto da dove provenisse la prima materia
cosmica, ma anche da dove cominciasse il Tempo cosmico, o perlomeno
se fosse conciliabile con quello planetario.
La
condizione più plausibile nei millenni passati è stata quella
religiosa, che non ammetteva incertezze al di fuori dell’idea di un
creatore assoluto.
Seguiamo
la traccia del primo racconto cosmico che abbiamo situato in un I
Stadio temporale e spaziale, mentre, il nostro racconto terrestre,
che abbiamo situato nel III Stadio, comincia alle fonti della
cosiddetta nostra cultura, là dove l’idea di un giardino non fosse
ancora il Paradiso, e il Paradiso non fosse sinonimo di delizia
perduta, ma di luogo desiderato, da ricercare. Questo racconto si
riallaccia ad un mito popolare iniziato nelle terre dei Sumeri, la
cui mitologia verteva alla figura della dea Inanna, la dea Madre, dea
dell’amore, regina del cielo e della terra (Massimo Venturi
Feriolo, Nel grembo della vita - le origini dell’idea di giardino,
Edizioni Guerrini Associati, Kepos).
Dalla
fantasiosa capsula del Cromonauta quella metaforica dove la donna
come vedremo racchiuderà la vita che continua come grembo femminile,
il passo è stato breve.
Del
resto un giardino coltivato si contrapponeva ad un campo selvatico,
come idealmente la cultura è opposta all’ignoranza o la giustizia
all’ingiustizia, e così via.
L’identità
«donna-albero» e l’istituzione del trinomio «donna-albero-vita»
hanno viaggiato nei secoli, e le si ritroverà nell’Egitto del
secondo millennio, e nel mondo Ellenico, ma anche in epoche molto più
recenti.
Cominciamo
questa fantasiosa novella con un primo interrogativo: noi siamo i
gemelli più recenti del Cromonauta? Cosa direbbe Einstein oggi, se
avesse potuto identificare uno dei suoi famosi gemelli? A seguito dei
suggerimenti di Asimov, potremmo ritenere Cromonauta il gemello
temporale di una relatività ristretta limitata nel Tempo e nello
Spazio, ristretti ad un circolo o cerchio cosmico ben definito e
costituito.
Il
Cromonauta possedeva la sua consapevolezza di «cromosoma cosmico»
che cercava il suo corrispondente da fecondare in nome di un
progresso che successivamente si sarebbe identificato come un
contesto evolutivo. Egli era completamente ignaro di rappresentare,
forse, la principale causa di un effetto evoluzionistico, che
difficilmente si sarebbe potuto connettere ad un complementare
evoluzionismo relativistico.
L’umanità
a sua insaputa avrebbe creato l’idea evoluzionistica in un evidente
disaccordo con la teoria della relatività generale. Ma questo sarà
un argomento che Atomos affronterà più avanti nel suo Tempo.
Ma
se il Cromonauta fosse stato il nostro primo gemello il quale avesse
viaggiato ad una velocità molto superiore della velocità della
luce, allora ci avrebbe superati e, quindi, dovrebbe ancora
raggiungerci, visto che noi abbiamo una velocità relativa
estremamente inferiore, ma solo dopo aver invertito la sua Freccia
del Tempo.
A
questo punto il nostro «cromosoma cosmico» avrebbe dovuto aspettare
che tutto il nostro tempo relativo si stabilizzasse, o meglio si
fermasse nei valori apparentemente più lenti del suo tempo iniziale.
Asimov
conclude ovviamente con la logica della maggioranza degli scienziati:
“Vi sono altri problemi; ma tutti, l’età, l’uniformità, la
dis-uniformità e così via, dipendono da ciò che accadde all’inizio
dell’universo nei primi istanti dopo la grande esplosione.
Naturalmente
non c’era nessuno lì ad assistere, ma gli scienza ti cercano di
ricostruirlo con il ragionamento in base a ciò che sanno dello stato
attuale dell’universo e ciò che hanno appreso sulle particelle
subatomiche”(p.241)
Noi,
invece, abbiamo provato a ragionare ad absurdum, ossia, inventando un
testimone e nel contempo protagonista di quell’istante iniziale,
perché nelle favole è possibile ogni soluzione fantasiosa. Infatti,
in ogni favola che si rispetti è la sola immaginazione a prevalere
sulla ragione o meglio ancora sulla logica.
Il
Cromonauta si potrebbe immaginare come un «messaggero subatomico»
indipendente da ogni tentativo di coercizione esterna alla propria
volontà, poiché per lui non esisteva né volontà e di conseguenza
nemmeno la capacità di esercitarla, per la sproporzione delle forze
in gioco sin dall’inizio.
Per
questo motivo egli ci sarebbe sembrato oggi più giovane, ed essendo
noi i suoi gemelli successivi, saremmo apparsi più vecchi di lui,
sebbene fossimo nati contemporaneamente, e sempre in ambito cosmico.
Questi
due «presenti relativi»: quello di Atom e il nostro Cromonauta,
sarebbero stati coincidenti solo all’inizio. Paradossalmente il
Cromonauta non poteva sapere che quel paradosso indicato da un certo
Eudosso prima e Zenone subito dopo, sarebbe stato dimostrabile,
probabilmente solo se la «Freccia del Tempo» si fosse idealmente
invertita.
Infatti,
avrebbe potuto raggiungerci, al ritorno della sua passeggiata
cosmica, poiché noi ci eravamo già fermati ai confini
dell’universo, avendo iniziato praticamente un’inversione di
marcia che sarebbe stata definita come contrazione cosmica.
Pertanto,
noi e il Cromonauta ci saremmo potuti incontrare in un anello che
idealmente il cosmo aveva precostituito per tutti gli esseri umani
contenuti in esso. Forse, quell’anello simbolico poteva essere
quell’Eden idilliaco dove pace e equilibrio si sarebbero dovuti
fondere in un unico obbiettivo: amarci gli uni con gli altri?
Nel
frattempo, continuavo a muovermi e a pedalare nel mio presente e
sulla mia bicicletta in città e, quindi idealmente, a passeggiare
sull’universo, perché sappiamo ormai che il nostro pianeta Terra
si muove nelle spazio solare e con esso tutto ciò che gli compete:
luna e cose terrestri.
Pertanto,
mentre la Terra si muove nel contesto solare, anche noi con essa ci
muoviamo e, allora, anch’io e la ma bicicletta stavamo pedalando
sull’universo.
Si
potrebbe simpaticamente dire che sto andando a fare una passeggiata
sull’universo, ma risulterebbe piuttosto difficile accettarla come
soluzione alternativa alle nostre passeggiate in campagna, in
montagna, in città o nei nostri pensieri.
Certamente
ciò che ha caratterizzato e caratterizza il Cromonauta e i suoi
gemellini è ed è stata la forza di gravità. Ma, Egli non sapeva
cosa fosse la forza di gravità, poiché essa viaggiava insieme a
lui, e la forza di gravità sarebbe divenuta l’arbitro
insostituibile tra il suo Spazio e il suo Tempo. Egli stava dentro
una capsula trasparente, che racchiudeva un piccolo giardino senza
terra, senza fiori colorati e foglie verdi, senza acqua e vento, ma
con i profumi dei frutti dello Spazio e del Tempo cosmici. Quel
giardino era un Eden in miniatura, come il Cromonauta del resto?
Ciononostante, come e perché una cosa infinitamente piccola può
muoversi in un contesto infinitamente grande? Il Cromonauta non
poteva ancora sapere che sarebbe diventato un essere cosiddetto
umano, molto più grande di lui, né poteva immaginare che sarebbe
stato così malvagio con sé e gli altri.
Egli
non era giunto con l’idea di fare del male, e dopotutto proprio
contro il suo cosmo, e, quindi, perché avrebbe dovuto fare del male
proprio contro il suo gemello?
Ma,
non aveva considerato che l’altro gemello avrebbe potuto farlo a
lui. E quindi, per quale motivo avrebbe dovuto farlo anche lui?
Per
nessun motivo che fosse valido per l’intero cosmo, perché il
medesimo cosmo non potendo riconoscere o conoscere il proprio padre,
avrebbe allora dovuto riconoscere la propria madre. Ma cosa
significavano l’idea di un padre e una madre alcuni miliardi di
anni prima che potessero esistere. Il Cromonauta era probabilmente
nato prima ancora che fossero inventati il ruolo di padre e di madre.
Ecco, forse, il motivo di vivere in un giardino, prima ancora di aver
inventato le piante, l’acqua, l’aria, la terra.
Non
sarebbe augurabile a nessuno vivere in condizioni così precarie e
confuse, tanto che un istante successivo – e per istante si
potrebbe intendere tutto l’universo – tutto lo Spazio si sarebbe
ricongiunto al Tempo, e in quel momento soltanto si sarebbe
configurato l’idea del giardino di Eden, che il Cromonauta aveva
portato con sé con tanta pazienza. Ma dov’era finita la luce? Essa
giunse con po’ di ritardo, ma giunse.
Allora,
perché subì un ritardo così marcato? Il Cromonauta non poteva
ancora vedere la luce, perché la velocità della luce era troppo
lenta nel I Stadio rispetto alla velocità con cui si muoveva o
espandeva anche tutto l’universo
Azimov
conclude il suo libro Atom, con parole che ci sono sembrate più
significative per iniziare un viaggio dagli inizi dei tempi
attraverso le quattro stagioni (che ho definito anche stadi) di Atom,
un «cromosoma cosmico» che, invece, ho chiamato il «Cromonauta»:
“[…]Perciò alla fine non sappiamo con certezza se l’universo
sia aperto o chiuso[…]La conoscenza dell’oggetto più grande da
noi riconosciuto, l’universo, dipende da ciò che sappiamo degli
oggetti più piccoli da noi riconosciuti, le particelle
subatomiche”.(p.237)
Questo
dimostra la consapevolezza umana di vivere in un gigantesco universo,
ma anche l’incapacità complementare di non essere riusciti ad
accertare finora la sua reale natura spaziale. Si sono susseguite,
quindi, numerose ipotesi e molte altre ne saranno fatte in futuro, e
seppur suggestive, probabilmente resteranno sempre ipotesi, sebbene
qualcuna potrebbe risultare più plausibile.
Materia
e antimateria si susseguono da qualche millennio come termini basici
della nostra presenza terrestre; l’idea di «essere» e/o «non
essere» è stata comunque complementare a quell’idea; spirito e/o
anima hanno caratterizzato le esegesi religiose fino ai nostri
giorni.
Ciononostante,
la condizione più semplice è stato quello di analizzare la parte
più visibile: la materia. Infatti, è da essa che sono partiti tutti
i riferimenti e le riflessioni filosofiche, e per arrivare anche ad
ammettere che potesse esistere qualcosa che si giustificasse
attraverso un concetto dualistico, il quale si è imposto anch’esso
da alcuni millenni, poiché non potremmo esistere materialmente senza
una reale vitalità di opposizione della nostra biologia fisica e
mentale.
Dobbiamo
precisare che questa opposizione dualistica non avrebbe dovuto essere
considerata come un’opposizione conflittuale, ma come complementare
ad un corretto e plausibile sviluppo di tutta la nostra biologia
materiale e spirituale.
Tale
complentarietà biologica si vedrà potrebbe essere stata quella
primigenia che il Cromonauta ha inconsapevolmente accompagnato sin
dall’inizio la sua avventura, è che si è compostamente risolta
alcuni miliardi di anni dopo che tutto iniziò.
Quello
che sembrerà in parte implausibile sarà il motivo per cui il
Cromonauta stia ritornando alle sue origini, poiché sia
metaforicamente sia almeno parzialmente potrebbe giustificare che
anche noi stiamo dirigendoci verso quelle origini, sicché in questa
inversione spazio-temporale si potrebbe intendere ogni forma di
redenzione che alcune tradizioni religiose tendono a suggerire.
Quindi,
la cosiddetta capsula terrestre che stiamo occupando come ospiti
temporanei, altrimenti saremmo immortali, tornerà a essere la
capsula primigenia del Cromonauta.
Si
può comprendere la meraviglia d’immaginare che stiamo tornando su
noi stessi e, quindi, ad uno stato primigenio di «non essere», dopo
essere «stati» in uno «stato» di «essere».
Inoltre,
è per questo motivo che abbiamo considerato il termine antimateria,
non come un’idea in opposizione alla materia, ma che fosse presente
prima della materia stessa, poiché antì in lingua greca sta a
significare anche «il prima», ed è perciò che l’altro termine
meta sta indicare più plausibilmente «il dopo». Quindi, noi siamo
stati «il dopo» di ciò che ultimamente si è definito il Big Bang,
ma che ora siamo diventati «il prima» che si è invertito tanto da
far divenire il nostro Cromonauta «il dopo».
Questo
ipotetico scambio di ruoli è stato l’effetto di un’organizzazione
cosmica più semplice da attuare ma più difficile da accettare
naturalmente da noi, essendo stati condizionati dall’abuso di una
logica-cognitivistica, che ha volutamente trascurato una semplicità
delle risoluzioni cosmiche, che, nella loro gigantesca proposizione,
ci sono sembrate insormontabili nell’azione, e perciò abbiamo
preferito considerale complesse proprio per la povertà dei mezzi di
cui disponiamo oggi nel confrontarci con esse.
La
semplicità cosmica di attuazione è stata la principale protagonista
e complice dell’inizio dell’avventura del Cromonauta, poiché si
potrebbe affermare tranquillamente: complesso è ciò che non
riusciamo a risolvere e semplice è ciò che si risolve da solo.
Pertanto,
visto che tutto e prima del tutto ha seguito un percorso ben
tracciato e definito in merito a tutte le forze che erano in campo,
tutto ciò che ne è seguito fino a noi è stato di una semplicità
indicibile per noi esseri umani ma commensurabile ad un disegno
cosmico, che oggigiorno alcuni astrofisici han voluto definire
intelligente.
Ciononostante,
non mi sembra ci sia alcunché di intelligente in tale disegno,
poiché l’intelligenza è una caratteristica solo umana. Il cosmo,
invece, è dotato solo di una genialità extraumana, e quindi di sola
semplicità primigenia, seppur gigantesca.
Il
Cromonauta è stato il primo portatore di questa geniale semplicità,
che ha mantenuto le sue caratteristiche peculiari, malgrado l’umanità
sembri di aver fatto enormi progressi in ambito matematico,
scientifico, tecnico, intellettuale, ma restano ben poca cosa di
fronte alla «conoscenza» che ancora racchiude il disegno cosmico.
Qualcuno continua a chiamarli segreti, ma adattandosi simpaticamente
alla tradizione italiana, il Cromonauta li definirebbe i segreti di
Pulcinella. Pensiamo alla cosiddetta «scoperta» del Dna.
Dopotutto
Giordano Bruno l’aveva intuita senza possedere un microscopio,
mentre il cosiddetto antenato primitivo di noi tutti pur non sapendo
nulla del Dna ci ha permesso di trovarci oggi qui in questo angolo
del cosmo a disquisire su chi siamo, perché siamo qui e da dove
veniamo.
È
altrettanto elementare che la nostra provenienza sia di ordine
extraterrestre, poiché i nostri principi vitali si sono sviluppata
sulla Terra, ma non sono nati su di essa.
Infatti,
come è accettato ormai che l’origine degli oceani e in particolare
l’origine della loro salinità, siano di ordine extraterrestre, e
con essi, infatti, potrebbero essere giunti tutti i Cromonauti degli
inizi.
A
noi è toccato un preciso Cromonauta, mentre in altre parti del
cosmo, gemelli del Cromonauta hanno fecondato altri precisi siti
cosmici. Tuttavia, non dovremmo confondere presunti enti
extraterrestri con i cosiddetti UFO, che tanta parte hanno avuto
nella fantasia e letteratura fantascientifica, della quale Asimov è
stato un vero maestro.
Non
dimentichiamo, inoltre, che ci potrebbero essere stati anche dei
Cromonauti pericolosi per la nostra razza umana, tra i quali potevano
nascondersi anche virus o batteri talvolta divenuti letali per
l’umanità. In breve: Cromonauti benevoli e malevoli.
Noi
siamo circondati da miriadi di virus e batteri, che si manifestano
ogni qualvolta l’umanità diminuisca la sue difese naturali attive,
ossia, si indebolisca attraverso forme di deterioramento di stile di
vita, o come potrebbe avvenire per una inconsueta e innaturale
degradazione del sistema ambientale dal quale dipendiamo senza ombra
di dubbio.
L’equilibrio
naturale della nostra natura vegetale e terrestre ha subito senza
dubbio delle grosse modificazioni nelle trascorse ere geologiche, ma
sempre nel rispetto di un orologio terrestre, che si era
inevitabilmente sincronizzato a quello cosmico.
A
causa della nostra dissennata violenza perpetrata in particolare nel
XX secolo contro la Natura, abbiamo scombinato quest’orologio che
ha funzionato sincronicamente per miliardi di anni, ma che potrebbe
essere responsabile di grandi problemi e dolori per gli esseri umani.
Il
Cromonauta è stato una testimonianza cosmica indispensabile per la
nostra percezione attuale e futura, dove testimonianza e percezione
si fondono in una monade intellettiva che giustifichino insieme una
condizione terrestre che ha visto partecipare inevitabilmente
l’intero cosmo alla formazione e costituzione della nostra Terra,
come sosteneva in particolare Italo Calvino. Il Cromonauta è la
testimonianza più pura contro la nostra vanità terrestre di
ritenerci evoluti e di conseguenza capaci di poter dominare anche lo
Spazio circostante, sebbene non saremo mai in grado di dominare il
Tempo cosmico, poiché ne siano, altrettanto inevitabilmente, la sua
narrazione e non la sua misurazione.
Egli
non era provvisto di nessun orologio, anche se quell’orologio
cosmico (di cui la relatività di Einstein ha simpaticamente supposto
una staticità relativa ad un cosmo altrettanto statico o
stazionario, come si suole definire oggi) fosse inutile per lui.
Per
intenderci, egli era all’interno di un disegno cosmico che avrebbe
definito un Tempo che sarebbe divenuto un orologio che scandiva una
Freccia del Tempo che scorreva all’indietro, poiché la velocità
iniziale di espansione dell’universo è stata tale da rendere
ciechi a ogni forma di analisi del Tempo. Infatti, la velocità di
espansione era così alta da rendere invisibile la medesima velocità
della luce; infatti, a noi l’universo circostante sembra scuro e
buio, mentre invece è estremamente luminoso, proprio perché noi non
riusciamo a fissare la luce con i nostri occhi, se non in particolari
condizioni come quelle che si sono armonizzate sulla Terra.
Pertanto,
il Cromonauta ha viaggiato ad una tale velocità iniziale che ha
anticipato e custodito nella sua capsula ogni forma vitale
presumibile (non cosiddetta futura, poiché il futuro all’interno
della capsula era già presente sotto forma di passato; ogni attimo
dell’espansione cosmica era naturalmente un attimo di una Freccia
del Tempo che sarebbe dovuto ritornare inevitabilmente al suo passato
cosmico e quindi alla sua contrazione, dove il futuro all’esterno
della capsula si sarebbe sostituito progressivamente al passato)
affinché ai nostri occhi sembri rappresentare un ritardo temporale
cosmico dovuto alla velocità della luce, che essendo divenuta molto
più bassa di quella di espansione, ci abbia raggiunto proprio quando
già fosse iniziato la progressiva contrazione dell’universo e la
complementare variazione della Freccia del Tempo.
Ecco
perché secondo la teoria della Relatività Generale, il Cromonauta e
noi siamo: il primo gemello che ci ha raggiunto alla velocità della
luce, invece, noi come esseri umani siamo il secondo gemello che
dovrebbe sembrare più vecchio di lui. Ovviamente moltiplicando ogni
gemello per il numero totale degli esseri umani, abbiamo un’umanità
più vecchia di tutti i Crmonauti che ci abbiano raggiunto e che,
invece, riteniamo erroneamente più vecchi perché venuti dal
passato. L’errore paradossale sta nel fatto che noi ci riteniamo
più giovani del Cromonauta perché venuti idealmente dopo di lui.
Infatti,
Voltaire sosteneva che ogni discendente dopo di lui fosse più
vecchio, perché nato dopo di lui, mentre noi riteniamo più giovani
coloro che sono nati dopo di noi.
Potrebbe
sembrare un gioco di prestigio antropologico, ma esso nasconde una
verità che difficilmente si possa trasferire ai giorni nostri senza
ricevere una scomunica virtuale di eresia scientifica. Dopotutto,
l’abitudine di considerare una Freccia del Tempo in un senso
univoco ci costringe a sommare un Tempo planetario che invece
andrebbe sottratto al Tempo cosmico totale.
Solo
in questa condizione spaziale si potrebbe accettare l’idea di un
ritardo cosmico temporale, che il Cromonauta portava insieme a sé.
Quindi, un ritardo che sottraeva Tempo al Tempo cosmico, invece, di
sommarlo. Questo per un’evidente ragione di etica cosmica, poiché
avrebbe anche potuto sfiorare l’idea di un’immortalità
fisiologica, se non si fosse incontrato con il proprio gemello
terrestre, che aveva aspettato con tanta impazienza la conferma di
non essere inutile rispetto ad un disegno cosmico.
A
questo punto eravamo in due, un binomio fisico-animistico divenuto
reale perché la realtà si era fatta materia, la quale aveva il
Cromonauta come il suo primo antenato, un testimone di
quell’antimateria, che come abbiamo visto, aveva semplicemente e
naturalmente anticipato la materia vera e propria. Quindi, un
dualismo tra antimateria e materia che sono divenute complemenari
solo per un Tempo determinato. Anche qui egli si sarebbe dovuto
incontrare con un supposto determinismo antropologico.
Quindi,
tornando all’idea dualistica del numero due, ad un certo punto si è
passati ad un’idea di insiemi e quindi al suo doppio, ossia, il
numero quattro.
Il
fatto che entrambi siano di valore pari è del tutto plausibile in
ambito matematico, ma diventerebbe più difficile in un ambito
metafisico.
L’interrogativo
più importante è stato, è e sarà sempre: il Cromonauta dove e
cosa era prima di iniziare la sua avventura cosmica? Materia o
antimateria, o entrambe? Un elemento è incontestabile: noi e tutto
ciò che ci circonda siamo materia.
Si
evince naturalmente che la materia in senso universale ha uno scopo
primigenio, che malgrado i nostri sforzi di introdurla in ambiti
fenomenologici, essi non hanno dimostrato altro che: «siamo» e che
«ci siamo». Anche se oggi possa sembrare banale, è stato
importante «scoprire» che «siamo», ma i dubbi sono nati quando
abbiamo cominciato a interrogarci sul «dove siamo»: sulla Terra o
sull’universo?
Il
«perché» di entrambi tali interrogativi per ora lo procastiniamo,
poiché di essi si è parlato molto, ma si è detto molto poco, in
questi ultimi secoli.
Perciò
partiamo dal presupposto di sintetizzare l’avventura del Cromonauta
in quattro Stadi fondamentali, anche perché il numero quattro è un
numero progressivo comune e stabile nel contesto terrestre, come
vedremo, per quanto riguarda le stagioni climatiche terrestri che
hanno consentito e facilitato la nostra nascita e sopravvivenza.
L’idea
di semplicità (della quale Asimov è sempre stato un convinto
sostenitore) è stato il motivo principale, sebbene nel contempo
disarmante e gigantesco, con cui queste peculiarità metereologiche
si siano progressivamente imposte nel sistema planetario terrestre.
Esso
non è dovuta al caso né alla opera degli esseri umani, ma dal fatto
che lo Spazio e il Tempo cosmici, abbiano sufficientemente rallentato
l’opera di espansione del Tempo e dello Spazio, fino a giungere ad
un punto d’inversione del loro percorso, che il Cromonauta
intraprese proprio miliardi di anni fa.
Tale
inversione, compresa tra la fine dell’espansione e l’inizio di
una contrazione dell’universo (Argeo Basevi Magi, Involuzionismo
cosmico, CELSB Editoriale, Bergamo, 2007) conteneva e rappresentava
l’idea di un universo statico, che Einstein aveva supposto, ma che
poteva essere confermata solo ad una condizione cosmica, la quale
analizzeremo meglio nel corso del suggestivo viaggio cosmico del
Cromonauta.
Quindi,
il nostro Cromonauta-Atom viaggiò nella sua capsula per un certo
periodo temporale ad una velocità molto superiore di quella della
luce ordinaria, anche perché essa viaggiava insieme a lui
all’interno della capsula. Pertanto, ecco spiegato il motivo di
questo ritardo della presenza della luce, che dovette aspettare che
tutto l’universo rallentasse per poter muoversi più liberamente in
ambito cosmico.
Egli
aveva anticipato e sperimentato ciò che sarebbe diventato il
concetto di una teoria quantistica. La luce nel II Stadio finalmente
raggiunse il suo stato ordinario, che le consentiva di spostarsi ad
una velocità con un valore minimo sotto il quale nessun essere umano
avrebbe potuto sussistere e sopravvivere. Infatti la velocità della
luce come noi la conosciamo e sperimentiamo quotidianamente non
dovremmo pensarla come il valore massimo raggiungibile in ambito
cosmico, ma come la soglia minima sotto la quale, non avrebbe potuto
raggiungerci dove siamo, ossia, alla estrema periferia dell’universo.
Il
Cromonauta l’ha custodita per diversi miliardi di anni-luce, per
poi inseguirla nel suo II Stadio, che ha caratterizzato i primi due
stadi dell’universo. In effetti potremmo pensare a delle stagioni
del nostro universo che sono state probabilmente quattro, come le
stagioni che si sono affermate sul nostro pianeta.
Infatti,
le foglie che si scolorivano e si mostravano in una gamma di
sfumature nei colori autunnali, avevano caratterizzato un momento
qualunque, di un giorno qualunque, di un ciclista qualunque,
coincidenti di un momento cosmico altrettanto qualunque, dove
probabilmente il nostro Cromonauta, avrebbe trovato un pizzico di
tranquillità nel giardino che aveva portato con sé, quel giardino
come io potevo già vivere e godere nella mia città.
E
se la terra fosse divenuta la capsula definitiva come quella che era
partita insieme al Cromonauta? Allora, egli dove sarebbe ora?
Probabilmente
essendo così piccolo sarebbe impossibile localizzarlo esattamente
(come avrebbe intuito Heisenberg), ma lui potrebbe localizzare noi,
e, quindi, sarebbe sulla terra insieme a noi. E se addirittura fosse
proprio dentro di noi?
Il
Cromonauta, naturalmente, come avviene per lo gocce del mare che sono
innumerevoli e non si possono distinguere nella loro unità, era una
monade che costituiva un’unità per se stessa, ma la prima di tante
monadi che avrebbero fecondato il cosmo intero.
Egli
allora guidava una schiera di infinitesimi che a loro volta avrebbero
costituito un intero: era il principio di ogni ordine matematico, che
poi avrebbe costituito l’idea degli insiemi.
Egli
comunque nella sua consapevole-inconsapevolezza, è stato il
probabile iniziatore di qualcosa di gigantesco, del quale noi abbiamo
successivamente solo percepito una piccolissima parte: ma perché
dovremmo ricordarci di questo nostro antenato, forse, solo per
assegnargli le cause di ciò che noi siamo diventati: materia?
Ma
il Tempo allora cosa significava per la materia o viceversa?
Certamente l’anti-materia non poteva significare anti-Tempo,
altrimenti noi ci troveremmo orfani del Tempo, ed essere orfani del
Tempo vorrebbe dire essere orfani di noi stessi e, quindi, come se
l’antimateria fosse orfana della materia e non viceversa. Ma essere
orfani vuol dire aver perso i genitori, e allora avremmo perso anche
il Cromonauta?
Ma,
chi erano i suoi genitori? Egli ci ha generati, ma chi ha generato
lui? Se oggi potesse incontrarsi con noi chissà quale commento
potrebbe emergere, poiché noi siamo diventati genitori di noi
stessi, e questo ci ha assegnato il potere di considerarci padroni di
noi stessi. Forse, un Atom che è ancora in noi ed è ancora noi, ma
noi allora chi siamo?
Per
questo tentiamo di inventare un virtuale incontro con tutti gli
«Atomos» che sono sopravvissuti in quello che è rimasto o si è
definito del cosmo. Immaginiamo allora il cosmo come un grande
oceano, dove minuscole gocce di acqua sono protagoniste di un grande
contesto di materia. Entrambi costituiscono, comunque, materia.
Egli
era ovviamente un «essere» infinitamente piccolo in un contesto
infinitamente grande: ciò che univa il piccolo e il grande era
l’infinito-finito.
Il
Cromomauta iniziò il suo percorso di «cromosoma cosmico» quasi
inconsapevolmente, senza una meta precisa, poiché non conosceva la
sua provenienza, né possedeva un’attrezzatura adatta per una
passeggiata nel cosmo di quella durata. Egli non usava astronavi,
come si racconta nelle favole di fantascienza attuali, poiché non
erano ancora state inventate.
In
effetti non aveva bisogno di un’astronave, poiché anche gli astri
non erano stati inventati. Come poteva immaginare che la sua
astronave si sarebbe chiamata Terra, né tantomeno che il suo Spazio
si sarebbe chiamato Cosmo. Così il primo bagliore di luce che venne
da un soffio iniziale, creò un sole come simbolo del potere: una
luna della femminilità come un giorno simbolo d’attività e una
notte della paura. Il Cromonauta nulla poteva sapere di tutto ciò
che noi oggi crediamo di sapere sull’amicizia e sull’etica,
sebbene noi pretendiamo di sapere che Atomos potrebbe essere anche un
Cromonauta della materia.
Tornando
brevemente alla mitologia, nelle vicende narrate nel poema di Inanna
si individuavano i principi che illustrano anche altrove la nascita
del mondo e che ritroveremo nei racconti cosmogonici mediterranei,
passati attraverso il mondo Cananeo-Fenicio.
In
uno dei primi episodi della Genesi Sumera, Inanna salva l’albero
Uluppu, nato dall’unione tra il Signore delle acque e la Regina
dell’oltretomba; strappandolo alle acque dell’Eufrate dice:
“Pianterò quest’albero nel mio giardino sacro”.
L’albero,
che altrimenti sarebbe morto, fu portato in un recinto protetto, là
dove era possibile difendere la vita, là dove la vita poteva anche
continuare. Ma dove era iniziata veramente la vita? In quel primitivo
recinto si stiparono molti dei significati attribuiti al giardino,
quelli che di associazione in associazione erano diventati sempre più
numerosi.
Più
avanti nel racconto sapremo dei doni che generano o i rami recisi, di
Uluppu, i frutti diventano anche alimento dello spirito. Saranno
quindi alberi già colmi di simboli quelli che si troveranno nel
giardino che il Signore piantò in Eden secondo una tradizione che
cominciò dopo secoli di radicato culto della vegetazione. L’albero
della vita viene «piantato» e non «creato», accanto a quello
della conoscenza del bene e del male.
Qui
l’albero primigenio si sdoppia, e nel duplicarsi divide vita da
conoscenza, mentre in quello che potremmo identificare come filone
pagano permane l’identità giardino - grembo della vita, fertilità,
fecondità, luogo di unione sacra, recinto della Grande Madre, e
anche culla di Eros -.
Da
quella prima divisione si delineano due modelli di interpretazione
che paiono essere decisamente antagonisti. Da una parte avremo la
tradizione biblica in cui la vita del giardino è legata all’ascolto
e alla sottomissione alla parola e alle leggi del Signore; il
giardino quindi è là dove opera il giusto e il buono; nel giardino
è rimasta la vittima Abele, mentre Caino, il fuggiasco condannato è
la figura che meglio rappresenta il Paradiso perduto «secondo i
canoni di una cultura della colpa elevata alla massima potenza».
Ci
sono passi dell’Antico Testamento in cui vengono additati allo
sdegno i giardini idolatri, legati ai riti pagani della fecondità,
dove l’idea di natura si mostrava con un potere di rigenerazione
spontanea.
Quelli
che furono poi detti «i giardini di Adone» (che potremmo
successivamente metaforicamente indicare come quelli del Cromonauta)
suscitavano la riprovazione del profeta Isaia che li additava come
esempio di felicità caduca. Eppure oggi pare bellissima una
tradizione che ci fa credere che il gesto dedicato a ogni creatura in
vaso possa avere i caratteri di un rito, un vaso di fiori è come un
piccolo altare davanti al quale si celebra il nostro timore verso il
buio, l’inverno, la morte, la nostra fame di vita.
Nei
templi sumero-babilonesi si facevano germogliare certe piante in vasi
dedicati alle divinità femminili, legate alla figura della Grande
Madre, il vaso era simbolo di fecondità e fertilità. Da quei vasi,
ai «Giardini di Adone», divinità di origine orientale, pare
correre una tradizione ininterrotta. Va ricordato che Adone fu amato
contemporaneamente da Afrodite e da Persefone: una parte dell’anno
la passava con l’una sulla terra, l’altra con la seconda agli
inferi; è quindi facile vedere la sua figura legata al ripetersi del
ritmo delle stagioni.
Le
«Adonie» feste che godevano di pessima reputazione presso gli
Ateniesi si distinguevano per il rito di seminare in vasi, piante la
cui crescita veniva forzata (ed era quindi effimera) con molte
annaffiature e prolungate esposizioni al sole. Era questa una
operazione affidata alle donne che in questa fase si identificavano
con Afrodite.
Nel
giorno in cui nacque Afrodite fu concepito Eros: fu concepito in un
giardino da Poros e Penia, come dire dall’ingegno (intelligenza) e
dalla fame insaziabile, le stesse forze che regolano ancora oggi
profondo rapporto, anche con più duraturi giardini.
Cosa
si può pensare dei poeti che amano sorprendere ogni comprensione
della maggior parte dei loro lettori? Come, quello che un giorno
disse l’usignolo all’allodola: “Amica mia, tu ti levi così in
alto per non essere udita”. Così Gotthold Ephraim Lessing è
riuscito a rendere «esopica» persino l’esigenza stessa di
chiarezza e di essenzialità. Che è poi quella che anima le sue
deliziose Favole in tre libri (ed. Sellerio), dove pavoni e
cornacchie, donnole e serpenti, rane e usignoli, vespe e carogne,
cavalli e asini, come in ogni favola che si rispetti, ci fanno «la
morale», dicendo pane al pane, senza fronzoli o false profondità.
Come
fece il pastore in un’altra favola che ha ancora per protagonista
l’usignolo - quasi un alter ego del pensatore illuminista Lessing -
questa volta alle prese col gracidare dei falsi moralisti. «Da un
bel pò ha smesso di cantare l’usignolo. E allora in una tiepida
sera di primavera un pastore lo esorta a far sentire la sua voce.
Ahimè - risponde lui lamentoso - non le senti le rane? Non le senti
come gracidano? Si son fatte tanto chiassose che perdo ogni voglia di
cantare”[…]Le sento eccome - replicò il pastore - Ma è proprio
il tuo silenzio che mi condanna a sentirle”.
Tornando
alla fiaba cosmica del Cromonoauta, tutto ebbe inizio «semplicemente»
circa una dozzina di miliardi di anni-luce or sono. Naturalmente,
dobbiamo intenderci su cosa significhi il termine «tutto» o «alcuni
miliardi di anni-luce». Tuttavia, un Cromonauta del Tempo-Spazio
cosmici iniziava a percorrerli. Del resto, come poteva un «cromosoma
cosmico» avere la percezione del Tempo, che, invece, stava solo per
iniziare anche per tutti i suoi gemelli cosmici?
Cominciamo
questa fantasiosa novella con un primo interrogativo: noi siamo i
gemelli più recenti del Cromonauta? Mi chiedo simpaticamente, cosa
risponderebbe Einstein oggi, se avesse potuto identificarsi in uno
dei suoi famosi gemelli?
A
seguito dei suggerimenti di Einstein, potremmo ritenere il Cromonauta
il gemello temporale di una relatività ristretta limitata nel Tempo
e nello Spazio, ristretti ad un circolo o cerchio cosmico ben
definito e costituito.
Il
Cromonauta possedeva la sua consapevolezza di «cromosoma cosmico»
e, forse, cercava il suo corrispondente da fecondare in nome di un
progresso, e che successivamente a sua insaputa, si sarebbe
identificato come un contesto e riferimento evolutivo.
Egli
non era naturalmente colpevole di rappresentare, forse, la principale
causa di un effetto evoluzionistico, che difficilmente si sarebbe
potuto connettere ad un complementare evoluzionismo relativistico.
Immaginiamo
che egli fosse stato il nostro primo gemello e avesse viaggiato ad
una velocità molto superiore della velocità della luce, allora ci
avrebbe superati e, quindi, dovrebbe ancora raggiungerci, poiché noi
possediamo una velocità relativa estremamente inferiore a quella
della luce.
Infatti,
fino a quando il primo gemello non avesse invertito la sua Freccia
del Tempo, allora non sarebbe stato possibile incontrare il suo
secondo gemello. In breve nella nostra fiaba, i due gemelli ideali
stanno ritornando insieme al punto di origine del Cromonauta. A
questo punto il nostro «cromosoma cosmico» avrebbe dovuto aspettare
che tutto il nostro «tempo» relativo si stabilizzasse, o meglio si
fermasse nei valori teoricamente più lenti del suo Tempo iniziale.
Invece,
noi esseri umani abbiamo provato a ragionare ad absurdum inventando
un testimone e nel contempo protagonista di quell’istante iniziale,
proprio perché nelle fiabe è possibile ogni soluzione fantasiosa.
Infatti, in ogni fiaba che si rispetti è la sola immaginazione a
prevalere sulla ragione o meglio ancora sulla logica.
Oggi,
un nostro Cromonauta si potrebbe immaginare come un «messaggero
subatomico» indipendente da ogni tentativo di coercizione esterna
alla propria volontà, poiché per lui non esisteva né volontà e di
conseguenza nemmeno la capacità di esercitarla, per la sproporzione
delle forze in gioco sin dall’inizio della sua passeggiata.
Per
questo motivo egli ci sarebbe sembrato oggi più giovane, ed essendo
noi come esseri umani i suoi gemelli successivi, saremmo apparsi più
vecchi di lui, sebbene ci fossimo auto-fecondati contemporaneamente,
ovviamente inteso in un «tempo» contemporaneo cosmico.
Infatti,
avrebbe potuto raggiungerci al ritorno della sua passeggiata cosmica,
poiché noi ci eravamo già fermati ai confini dell’universo,
avendo iniziato praticamente un’inversione di marcia che sarebbe
stata definita successivamente, e quindi oggi, come contrazione
cosmica.
Pertanto,
noi e il Cromonauta ci saremmo potuti incontrare in un anello che
idealmente il Cosmo aveva precostituito per tutti gli esseri umani
contenuti in esso.
Forse,
quell’anello simbolico poteva essere l’Eden idilliaco dove pace e
armonia si sarebbero dovuti fondere in un unico obbiettivo: amarci
gli uni con gli altri?
Nel
frattempo, continuavo a muovermi e a pedalare nel mio «tempo»
presente proprio sulla mia bicicletta in città e, quindi idealmente,
a pedalare e passeggiare sull’universo, perché sappiamo ormai che
il nostro pianeta Terra si muove nelle spazio solare e con esso tutto
ciò che gli compete: la luna e le cose terrestri.
Si
potrebbe simpaticamente dire che sto idealmente e contemporaneamente
facendo una passeggiata sull’universo; ma risulterebbe piuttosto
difficile accettarla come soluzione alternativa alle nostre
passeggiate in campagna, in montagna, in città o nei nostri
pensieri.
Certamente
ciò che ha caratterizzato e caratterizza il Cromonauta e i suoi
gemelli è ed è stata la forza di gravità. Ma, il Cromonauta non
poteva sapere cosa fosse la forza di gravità, poiché essa viaggiava
insieme a lui e conseguentemente sarebbe divenuta anche l’arbitro
insostituibile tra il suo Spazio e il suo Tempo.
Egli
era partito dentro una capsula trasparente, che racchiudeva un
piccolo giardino senza terra, senza fiori colorati e foglie verdi,
senza acqua e vento, ma con i profumi dei frutti dello Spazio e del
Tempo cosmici. Quel giardino era un Eden in miniatura, come il
Cromonauta?
Ciononostante,
come e perché un messaggero infinitamente piccolo avrebbe potuto e
dovuto muoversi in un contesto infinitamente grande?
Il
Cromonauta non poteva ancora immaginare che probabilmente sarebbe
diventato un essere, cosiddetto, umano molto più sviluppato di lui,
né poteva immaginare che sarebbe divenuto così malvagio con sé e
gli altri.
Egli
non era giunto con l’idea di fare del male, e dopotutto proprio
contro il suo cosmo, e, quindi, perché avrebbe dovuto fare del male
proprio contro il suo gemello?
E
non poteva nemmeno considerare che l’altro gemello avrebbe potuto
fare del male a lui. Quindi, per quale motivo avrebbe dovuto farlo
anche lui stesso? Per nessun motivo etico che fosse valido per
l’intero Cosmo. Lo stesso Cromonauta non potendo ri-conoscere o
conoscere il proprio padre e la propria madre, avrebbe allora potuto
far del male anche a loro?
Ma
cosa significavano l’idea di un padre e una madre alcuni miliardi
di anni prima che loro potessero esistere. Il Cromonauta era
probabilmente il solo ha possedere l’idea del ruolo di un padre e
di una madre, e per questo aveva ricevuto il compito di recapitare il
messaggio di quell’idea in tutto l’universo.
Ecco,
forse, il motivo di viaggiare in una capsula dove c’era anche
l’idea di un giardino, prima ancora che fosse inventato il ruolo
delle piante, dell’acqua, dell’aria, e della terra.
Non
sarebbe augurabile a nessuno vivere in condizioni così precarie e
confuse, tanto che un istante successivo – e per istante si
potrebbe intendere tutto l’universo – tutto lo Spazio si sarebbe
ricongiunto al Tempo, e in quel momento soltanto si sarebbe
configurata anche l’idea del giardino di Eden, che il Cromonauta
aveva portato con sé e con tanta pazienza.
E
dov’era finita la luce? Anch’essa, infatti, giunse con po’ di
ritardo, ma giunse necessariamente. Allora, perché subì un ritardo
così marcato?
Il
Cromonauta non poteva ancora vedere la luce, perché la velocità
della luce era troppo lenta rispetto alla velocità con cui si
muoveva o si espandeva anche tutto l’universo.
Tuttavia,
dopo un poco di «tempo» qualunque, è iniziato un nuovo anno
qualunque e anche questa volta riecheggiavano sporadicamente dei
botti residui di un cosiddetto capodanno qualunque appena consumato.
Una
volta ancora io ero in compagnia dei miei pensieri in un giorno
qualunque e sognavo nuovamente un mondo di buon senso. Dopotutto, si
era festeggiato l’ennesimo trionfo del superfluo. Stavo scrivendo i
miei pensieri in un tardo pomeriggio di un inverno qualunque, mentre
si susseguivano i rumori di un aereo in volo, di un treno che andava,
il cinguettio insolito di un uccello e l’eco delle campane di una
messa vespertina.
Spostavo
nuovamente le tendine della mia finestra, e osservavo il crepuscolo
che si sostituiva ancora una volta al giorno, mentre il latrare di un
cagnolino si confondeva con esso. All’orizzonte della mia finestra,
le nuvole silenziose si scurivano lentamente, in un impercettibile e
progressivo scolorirsi del giorno, mentre la luna presentava il suo
conto luminoso per la notte. Chi ha paura della luna? Pensava Garcia
Lorca.
Anche
questa volta rumori e silenzio della città si sono ritrovati in un
coro di sensazioni, dove però, era sempre il «silenzio cosmico»
del tramonto che prevaleva su tutto e su tutti.
È
straordinario come attraverso una sola finestra si possano scorgere
due mondi: uno silenzioso e infinito, l’altro rumoroso e finito. Mi
sovviene Leopardi seduto sul suo ermo colle, da lì all’infinito e
comprendo come una finestra cittadina, sebbene così lontana dalla
mia campagna infantile, sia l’ultima soglia rimasta tra i miei
pensieri e l’infinito.
Ora
che la notte si è sostituita al giorno, le luci della città si sono
fatte più incisive, è la luna che rappresenta il mio infinito e il
mio «naufragar in questo mare», mentre continuo nei miei pensieri.
La luna, libera dallo sguardo delle nuvole, sembra un occhio luminoso
puntato sull’universo, che forse non sa neppure di esserlo o invece
sa tutto di sé e di noi, ma non ha il «tempo» di pensarlo.
Il
ricordo tornava alla collana di perle della mia mamma, e nel medesimo
tempo un raggio della mia luna bussava ad una conchiglia sul fondo
del mare e una perla incuriosita si affacciava e si arrampicava lungo
quel raggio: il nostro occhio luminoso puntato sull’universo si era
rispecchiato nel suo mare.
Lo
stupore della perla fu grande, quando si accorse che la luna riflessa
fosse in cielo. Chi poteva aver paura della luna? Improvvisamente, un
pesce inghiottì la perla nel buio profondo del mare. Passò del
«tempo» e quel pesce fu catturato, e la perla si ritrovò in balia
della luce: ma dove era finita la luna? Dove si nascondeva?
Si
ritrovò imprigionata in un anello, lontana dal suo mare. Ogni giorno
pregava di rivedere il raggio di luna che aveva illuminato la sua
amata conchiglia. La perla era divenuta ostaggio di un mondo che non
era il suo, ma che sembrava di tutti. Perché la luna aveva ingannato
proprio lei e, forse, tutte le perle?
Tutte
le sere, la perla piangeva in silenzio nella nostalgia del suo mare,
e così tanto che si formò un mare di lacrime, dove però la luna
non riuscì più a rispecchiarsi.
Questo
fu il castigo per la luna, che talvolta è stata vista lacrimare di
nascosto. Abbiamo paura della luna, ma forse lei non ha paura di noi.
Noi,
invece, abbiamo paura della morte, ma non sappiamo se anch’essa
abbia paura di noi. Si parla di una società disumana. Invece, umani
si nasce e disumani, poi, si diventa. Si è mai visto un bambino
disumano? Non credo. Un adulto, almeno una volta, sì è visto.
Ciò
che sappiamo della vita non serve alla morte, ma ciò che non
sappiamo della morte ci serve per ri-nascere.
La
ri-conoscenza è come una nuova nascita ed è per questo che la morte
non ha «tempo», perché con essa noi torniamo a una nuova
conoscenza, ovvero, alla ri-conoscenza.
Non
scorgo più la luna dalla mia piccola finestra. Vedo sempre le luci,
le automobili che si allontanano.
Abbasso
la tapparella sulla mia città e sui miei pensieri e torno a sognare
d’essere vivo, finché una luce mi ricorderà che sono diventato
invisibile a tutti, ma spero non al Cromonauta messaggero. Il nostro
grande occhio luminoso sull’universo, è diventato il faro di
approdo del nostro Cromonauta?
Forse,
un giorno qualunque in un «tempo» qualunque, seguendo il raggio di
luna egli busserà alla mia piccola finestra e così ci
ricongiungeremo come due antichi gemelli che non abbiano nulla da
dirsi, ma possano guardarsi negli occhi e trasmettersi con il
silenzio del pensiero quel messaggio cosmico atteso da lungo «tempo»
e da entrambi.
Perciò,
durante la mia notte sognerò d’essere vivo. Un mattino mi
sveglierà la luce. Urlerò, pregherò, chiamerò, ma nessuno mi
ascolterà. Sarò diventato invisibile! Allora tornerò a sognare nel
silenzio della mia notte e a ri-nascere insieme alla mia luna.