COMPARAZIONE
STORICO-FILOSOFICA
TRA L’ATOMISMO DEL PERIODO CLASSICO
E LE TEORIE
QUANTISTICHE CONTEMPORANEE
a
cura di Argeo Basevi Magi
-2019-
ABSTRACT
La
filosofia classica, oggi erroneamente definita continentale, nella
storia della cultura, si è riservata sempre un compito unificante,
ossia, non voler essere un sapere particolare, ma un sapere generale
del «filosofo in atto» («filosofo
nella pratica»
di Leopardi).
Non
è una scienza specifica, ma una «metascienza» - intesa come una
scienza della scienza, metodo dei metodi, e così via -. L’impegno
del «filosofo in atto» si è articolato in varie fasi e per un
periodo molto lungo; la sua universalità non si è disgiunta da una
sensibilità scientifica più definita, ossia, verso una disciplina
particolare: “E
secondo queste osservazioni si conosce come il filosofo non sia
filosofo nella vita e nelle azioni, s’egli non guarda se stesso e i
fatti suoi come quelli degli altri, se egli non gli osserva
dall’alto, come quelli degli altri, se insomma non si spoglia
dell’abitudine naturale di escludere se stesso e i fatti suoi dalla
dottrina generale degli uomini e dèi fatti del mondo. Se il filosofo
non è «filosofo
nella pratica»,
e se i suoi princìpi non corrispondono alle sue azioni, il che
accade tutto giorno”.
Del
resto, la scienza e la tecnica ci hanno indicato i mezzi da usare,
invece la filosofia ci avrebbe dovuto indicare il modo migliore di
usarli. Infatti, Aristotele era un naturalista, Cartesio raccomandava
al «filosofo in atto» l’esercizio delle scienze naturali e della
matematica, consigliando però di dedicare alla filosofia solo una
parte limitata del proprio tempo. In questo senso, il filosofo era
considerato e declassato piuttosto ad un «teoretico», denominazione
che oggi avrebbe molti aspetti vantaggiosi, data l’usura dei
termini, e del termine «filosofia» in particolare.
Quindi,
anche quando la filosofia si è progressivamente distaccata dalle
scienze naturali - non proprio recentemente, infatti, gli ultimi
cultori di una vera e propria filosofia naturale e ambientalistica in
senso ristretto sono stati i cosiddetti presocratici: Eraclito,
Anassimandro, Anassagora, Democrito, Lucanus, e anche Socrate,
Platone e Aristotele per certi casi - , ha mantenuto qualche aspetto
concreto: ha svolto un’analisi e critica dei metodi delle prime
attività empiriche, e ha promosso l’emancipazione dalle strutture
mitiche.
Poi,
sulla pericolosa via della generalizzazione filosofica, il filosofo è
diventato, forse, uno specialista della non-specializzazione, ossia,
il contraddittorio dello specialista: “Quindi
si veda quanto sia difficile a trovare un vero e perfetto filosofo”.
È
forse l’unico cosiddetto ricercatore-specialista che abbia respinto
ogni definito contenuto limitativo, abbracciandoli tutti. Fino a che
quest’atteggiamento rappresentava l’aspirazione di superare i
limiti della propria disciplina filosofica, era ben giustificato. Ma
l’attuale specialista della non-specializzazione - oggi il filosofo
è diventato proprio questo, quando non tenda semplicemente a far
lievitare una singola disciplina fino a estenderla al tutto per ogni
circostanza: bio-etica, sociologia, linguistica, ermeneutica,
logica[...] - è fondamentalmente separato dalla Scienza
della natura,
e non si nutre della ricerca sperimentale: tanto che spesso per
mancanza di uno specifico campo disciplinato, ripiega sulla storia.
Pertanto, non è filosofo, ma è diventato cultore di storia della
filosofia, è l’esperto delle affinità e delle dissidenze
culturali.
È
irrimediabilmente volto al passato, ma quale passato? Analizzandolo
bene, anche quando il filosofo coltivava interessi naturali, non
erano le cose naturali il suo vero oggetto-obiettivo.
L’oggetto
della filosofia non era il mondo, piuttosto ciò che stava dietro le
cose, di cui esse sono l’apparenza. L’esigenza
di una teorizzazione a largo raggio si fece sentire fin da principio
- con Platone per l’Occidente, ancor prima in altri contesti a più
forte coloritura mitica - come connessione tra l’immaterialità del
pensiero e qualcosa d’altro, ugualmente immateriale, dietro o
dentro alle cose, attraverso cui queste divenissero comprensibili.
È
forse l’unico cosiddetto ricercatore-specialista che abbia respinto
ogni definito contenuto limitativo, abbracciandoli tutti. Fino a che
quest’atteggiamento rappresentava l’aspirazione di superare i
limiti della propria disciplina filosofica, esso era ben
giustificato.
Il
filosofo cosiddetto
specializzato
ha sempre pensato - e continua anche oggi, in correnti di pensiero
corpose e ufficiali - che sia possibile una sfera conoscitiva che
prescinda dall’osservare il mondo esterno. La filosofia classica è
appunto quella disciplina che non tanto va oltre gli oggetti visibili
- tutta la scienza moderna tenta di andare oltre gli oggetti
visibili, invece -, quanto prescinda dagli oggetti. Tale
atteggiamento si è fatto più radicale, poiché il filosofo
analitico prescinde anche da se stesso concepito come
oggetto-soggetto di studio.
Il
suo «Io»,
inteso l’«Io»
dell’essere umano in generale, non è quello esaminato dallo
studioso inteso come antropologo, psicologo, sociologo, anche
biologo.
C’è
una via molto più breve, che gli permette di guadagnare tempo e
fatica: consiste nel chiudere gli occhi fisici che si volgono
all’esterno, mediante le varie scienze naturali, e nell’aprirne
altri che si volgono all’interiorità, mediante quella che viene
oggi comunemente definita meditazione.
Non
attraverso la ragione, che è per definizione un chiudere gli occhi
fisici - nel fare operazioni interne senza distrazione alcuna -,
maneggiando in tal modo la realtà.
No!
Qui la realtà proprio non c’è, se non quella dell’«Io»
intransitivo che interroga se stesso, e fonda tutto su questo
soliloquio meditativo.
Si
è delineata una modalità tutta diversa di conoscenza, una
cosiddetta conoscenza-assimilazione, senza mediazione di linguaggi o
di tecniche conoscitive, che si può chiamare anche intuizione o in
qualche altro modo, oppure, un uso di categorie razionali applicate
per analogia a un campo non naturale e non empirico. Ciò è stato
teorizzato in formulazioni precise da quando una certa necessità di
coerenza lo ha imposto. Descartes parla d’idee chiare e distinte,
nel senso appunto di fatti mentali che non abbiano bisogno né di
prove, né di mediazioni linguistiche, né di apparati tecnici di
collegamento ad altre idee.
E.
Husserl - secondo alcuni il Cartesio moderno - parla di necessità -
non solo possibilità - di mettere tra parentesi il mondo - epoché
- per evidenziare situazioni interne di tal natura, e lui fa questo
con ambizioni più forti, ossia, fondare una vera e propria scienza
di questo «Io»
che ha chiuso i suoi occhi interiori e che si è messo in
comunicazione con la realtà mediante tale filo diretto, prescindendo
dal tortuoso cammino della mediazione, della dimostrazione, degli
apparati tecnico-biologici della mente. La ricerca del «filosofo in
atto» è infatti destinata a «fondare» la conoscenza, cioè a
trovare un principio incontrovertibile - il cogito
ergo sum
cartesiano, o la epoché
husserliana - , dal quale poi si possono ricavare tutte le conoscenze
particolari: quindi, un fondamento filosofico che si sia sottratto ai
paradossi e alle contraddizioni sempre filosofiche.
Con
ostinazione il «filosofo in atto» si allontana da ogni critica,
superando così qualsiasi obiezione a proposito dell’illusorietà
dell’esistenza e della relatività del pensiero.
Il
punto è divenuto proprio questo: esiste allora una conoscenza
interiore? Ma non classificata come vitalità interiore. Allora,
occorre credere anche ad una vita interiore? Si deve intendere di
conoscenza interiore, cioè di una forma di conoscenza che proceda
direttamente verso l’interiorità, senza utilizzare dati, strutture
e canali categoriali : circuiti, linguaggi, rappresentazioni di cose
e di persone, operazioni di rapporto tra cose, memorie di fatti, ecc.
ecc.; una conoscenza intransitiva, che presupponga l’eliminazione
dell’esteriorità come apparenza, ossia come elemento di disturbo,
e sia rivolta all’evidenza spontanea di qualcosa di certo. Una
conoscenza indipendente da organi e da tecniche, cioè da
quest’apparato natural-burocratico con cui ha a che fare il
ricercatore moderno del significato, e che non è ben apprezzato dal
«filosofo in atto», perché considerato non plausibile.
Dal
momento che la conoscenza della Natura ha acquisito le sue specifiche
tecniche e operazioni, la conoscenza del «filosofo in atto» è
allora radicalmente cambiata, ossia, «altra filosofia»,
qualitativamente diversa, e la diversità si presenta subito come
opposizione dialettica di un altro modo di vedere le cose, per un
altro modello umano. Da questa situazione nasce un’altra radicale
opzione di partenza: che non esista una conoscenza interiore.
Non
c’è dimostrazione né giustificazione a tale pretesa, non c’è
traccia di tale conoscenza diretta e introspettiva nella storia
naturale e culturale, né vi sarebbe una prova in forza della sua
intransitività come esperienza incomunicabile, anche se ci fosse.
Quanto sta sotto questo nome di conoscenza interiore è una
costruzione intellettuale che si serve dei normali mezzi di
produzione e comunicazione del pensiero - ad esempio la
spettacolarizzazione -, con la sola eventuale variante di essere, più
delle costruzioni abituali, intrisa di un desiderio egoistico:
desiderio di onnipotenza, desiderio di possedere la chiave universale
che apre tutte le porte, di essere onniscienti, di valicare i limiti
imposti dalla natura.
Desiderio
divenuto legittimo, proprio interno alla nostra costituzione
fisiologica, ma che purtroppo non dimostra l’esistenza di qualcosa
che oggettivamente gli corrisponda.
La
conoscenza è ed è stata sempre una funzione naturale dell’uomo,
ed esiste solo in quanto si è immersa nelle cose. Così la
conoscenza ambientale, che lavora solo in relazione alle cose
naturali.
Ha
il carattere categoriale e strumentale che le ha assegnato la storia
cosiddetta evolutiva, nella quale la selezione è avvenuta su quanto
realmente già esisteva.
La
conoscenza naturale ambientalistica è sempre stata mediata tra
un’incorporazione diretta del suo stato e un’assimilazione della
realtà della Natura matrigna, come riscontro degli effetti delle
cose su altre cose, ossia, gli organismi umani: “[…]Detta
per questo fu degli déi la gran madre, e delle fiere la madre, e
della nostra progenie la genitrice sola”.
La
combinazione fra densità demografica e consumo delle risorse non
rinnovabili prospetta uno scenario apocalittico per la fine del XX
secolo e l’inizio del XXI.
Quello
che sembrava in fieri come l’incubo dell’Anno Mille fu la fine
del mondo; l’incubo del XXI secolo potrebbe divenire il breakdown
ecologico.
Nei
cosiddetti Paesi poveri l’esplosione demografica potrebbe provocare
nuove versioni della teoria hitleriana dello spazio vitale come jus
ad bellum.
In situazioni geografiche insulari potrebbe - come già avviene nelle
Filippine - alimentare la guerriglia interna.
L’incubo
del collasso ecologico viene non soltanto dal boom delle nascite nei
Paesi poveri, ma anche dal boom dei consumi nei Paesi ricchi.
L’Occidente ospita anch’esso i suoi cavalieri dell’Apocalisse:
inquinamenti, effetto serra e corrosione dello schermo di ozono.
H.
Jonas scriveva (1977): “Agisci
in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la
possibilità futura di tale vita”.
J.
G. Fichte - 1796 - scriveva: “Agisci
in modo da poter concepire la massima della tua volontà come una
legge per te eterna”.
Credo
che la comparazione teleologica di questi due significati morali stia
nella responsabilità etica che entrambi i due filosofi hanno voluto
sottolineare, seppur in epoche diverse. È la dimostrazione che
l’etica nella sua esegesi è sempre stata ed è senza tempo.
Comunque,
a differenza delle categorie politiche convenzionali, l’ecologia
deriva il suo nome dalle scienze naturali anziché dalle scienze
sociali.
Il
suo fondamento è nella biologia olistica, che esalta il legame
dell’essere umano con la Natura, l’interdipendenza della vita
umana con le condizioni del suolo, dell’aria, dell’acqua e del
cibo, e anche la propensione verso comportamenti individuali
spontanei, non sofisticati e appunto «naturali». Ma l’ecologismo
ha guadagnato una forza politica consistente soltanto quando, agli
inizi degli anni ‘70, ha realizzato la fusione fra la biologia
olistica e l’economia delle risorse esauribili.
Con
le campagne contro gli inquinamenti e per la conservazione delle
risorse non rinnovabili, l’ecologismo ha anche modificato molti dei
suoi connotati originari, e si è portato su collocazioni politiche
di sinistra, associandosi in molti casi con tematiche pacifiste,
femministe ed egualitarie.
Lo
sviluppo più clamoroso fu, come è noto, il fenomeno dei Verdi
scaturito dalle contestazioni studentesche del ‘68 in Germania.
Oggi in tutti i Paesi europei partiti e movimenti verdi riscuotono
fino al 10% e oltre dei voti, e nel nuovo Parlamento europeo ci sono
più ecologisti che comunisti.
Anche
per merito dell’ecologismo contestativo, l’interdipendenza fra
essere umano e ambiente, il rapporto fra equilibrio dell’ecosistema
e qualità anche morale della vita, la considerazione dei beni che
non possono essere negoziati sul mercato, in quanto rappresentano
interessi diffusi, sono princìpi oggi politicamente sostenuti e
attivi. La conciliazione fra ecologia e sviluppo qualche passo avanti
l’ha già fatto, e forse necessita di trovare anch’essa uno
storico di riferimento.
Purtroppo
oggi non ci sono idee chiare e distinte per sé, ma idee che
divengono chiare e distinte in un processo linguistico e in un
sistema di funzioni logiche implausibili.
Quando
crediamo oggi di possedere la sensazione di chiarezza e immediatezza,
in realtà sfruttiamo al massimo la strumentalità e la falsità dei
collegamenti mediatici, ed è proprio allora che la nostra macchina
sembra funzionare bene e senza intoppi, tanto che il meccanismo
mediatico ci dia l’illusione di un’appropriazione diretta di ciò
che conosciamo.
L’essere
umano è divenuto un meccanismo assimilato, inserito nei linguaggi,
negli altri, nella natura scientifica. Quanto è umano è
giustificato da questo metabolismo del significato che ha costruito
relazioni e riferimenti in esso, in rimandi quasi senza fine, in una
cosiddetta complessità d’inferenze e traduzioni da lasciare
storditi.
Seppur
ci troviamo in una conoscenza naturale privilegiata rispetto al mondo
animale, non possiamo possedere quanto conosciamo; infatti, la realtà
sembra collocata dove la vediamo o ce la fanno vedere; ma per
conoscere, come prima condizione dobbiamo anzi respingere il
desiderio e il concetto stesso del possesso e del dominio sulla
Natura matrigna. La sensibilità ecologica esprime valori che
concernono il senso del solidale e dell’unitario. L’ambientalismo
è solidale perché gli anni Ottanta sono stati il decennio dell’«Io»
egotico e gli anni Novanta dovrebbero essere stati il decennio del
«Noi»?
Ma è stato proprio così? Non sembra.
Perché,
come nel romanzo di Richard Mason, «il
vento non sa leggere»:
gli elementi naturali non leggono i cartelli di confine e non si
fermano alla dogana.
Noi
esseri umani qui ora siamo non i padroni, ma i custodi delle
ricchezze del mondo che abitiamo. Abbiamo la responsabilità della
conservazione di ciò che abbiamo a favore di coloro che ci
seguiranno.
Oggi
mi sforzo di vivere secondo questa regola, ma nel corso dei miei
viaggi sono spesso rimasto colpito dalla frequenza con cui gli adulti
non tengono alcun conto delle generazioni future.
Assistiamo
in tutto il mondo allo spettacolo di genitori che sembrano curarsi
ben poco del pianeta che i loro figli dovranno un giorno ereditare.
Paradossalmente,
il cosiddetto progresso tecnico-scientifico degli ultimi
cinquant’anni ha reso possibile lo studio dei fenomeni di
alterazione ambientale e della sempre maggiore situazione di degrado
imposta alla Natura.
Naturalmente
una buona conoscenza degli esseri viventi, così come quella delle
condizioni chimico-fisiche del loro ambiente, è importante, se non
indispensabile, per l’apprendimento dei concetti ecologici,
concetti assimilabili solo con l’insegnamento pratico e in
laboratorio.
In
questi ultimi tempi sono state introdotte nella scuola sia primaria
sia secondaria buone nozioni di ecologia come parte integrativa dei
programmi di biologia; questo però non è risultato ancora
sufficiente a garantire una buona conoscenza della materia, occorre
anche una conoscenza pratica sul terreno che permetta una più
tecnica e precisa educazione su come rispettare la Natura e
l’ambiente prodotto da essa in cui ogni essere è destinato a
vivere e sopravvivere.
In
breve l’ecologia, in quanto studio e ricerca onnicomprensiva di
azioni, moti e reazioni attraverso cui si realizza la vita di tutti
gli esseri umani e non, non è soltanto affascinante, ma è anche e
soprattutto indagine che ci permette di capire, entro limiti ben
precisi, alcune caratteristiche del misterioso viaggio dell’esistenza
del regno animale e vegetale sulla Terra che abitiamo.
Come
tutte le discipline anche l’ecologia ha avuto il suo percorso
storico, talvolta involuto altre volte evoluto e a tal proposito
basta ricordare le opere di Ippocrate, di Aristotele e di altri
filosofi del passato citati nei prossimi paragrafi, soprattutto
greci, di chiaro contenuto ecologico, senza però che da esse
scaturisse un trattato dedicato ad una scienza della Natura.
Nella
nostra primitiva vita sociale ogni individuo aveva imparato a
conoscere molto bene attraverso la sua esperienza quotidiana, per
sopravvivere, l’ambiente in cui agiva quotidianamente vale a dire
che doveva conoscere dove trovare gli animali da cacciare, le piante
per i vari usi e i ripari più idonei per difendersi dai nemici: le
forze della natura erano spesso ostili alla sua vita.
Questa
situazione vigeva, generalizzata, nel primo periodo di organizzazione
sociale, ma cambiò radicalmente nel momento in cui l’uomo
primitivo cominciò a manomettere la natura e a fabbricare i primi
strumenti con l’ausilio del fuoco.
Successivamente,
l’incremento demografico e la capacità umana di intervenire
sull’ambiente circostante fecero nascere i primi squilibri,
peggiorati col trascorrere dei secoli, fino ad arrivare all’attuale
situazione di «rottura» dell’equilibrio ambientale.
Inconsapevolmente
l’uomo ha dovuto interessarsi di ecologia sin dall’inizio della
sua storia questo interesse è documentato infatti dalle sue
manifestazioni pittoriche - pitture rupestri -.
Esse
sono il primo esempio di trasmissione di informazioni e dati
necessarie all’uso corretto di piante medicinali, che talvolta
potevano risultare anche velenose e di animali che convivevano con
gli esseri umani primitivi.
Più
che forme artistiche erano vere e proprie forme primitive di
trasmissione di dati informativi per le generazioni future.
Quindi, sono stati più sapienti di noi? Direi proprio di sì!
Karl
R. Popper in un saggio su Parmenide del 1998, scrive: “Il
problema dell’interpretazione del poema di Parmenide, per il quale
avanzo qui una soluzione congetturale, è il seguente: perché, dopo
averci spiegato come è in verità il mondo reale e dopo averci
ammonito severamente dall’essere ingannati dalle opinioni umane
sulle apparenze, Parmenide (o la dea) si dilunga a descrivere
dettagliatamente: come è in apparenza?[…]Pertanto
questa concezione di Parmenide non deve sorprendere. Ciò che invece
sorprende in Parmenide è la sua idea che la conoscenza divina della
realtà è razionale e quindi veritiera, mentre l’opinione umana
dell’apparenza è basata sui nostri sensi, i quali non sono solo
inaffidabili, ma anche totalmente ingannevoli[…]Tuttavia, i suoi
maggiori successori e oppositori sono chiaramente Leucippo e
Democrito, i fondatori dell’atomismo, che capovolsero l’elenchus
per fornire una confutazione empirica della sua cosmologia: c’è il
movimento. Quindi: il mondo non è pieno. C’è lo spazio vuoto. Il
nulla, il vuoto, esiste. Quindi: il mondo consiste dell’esistente,
dell’impenetrabile e pieno, e del vuoto: degli «atomi e del
vuoto».”
Popper,
seppur ritenesse la teoria di Parmenide assurda empiricamente, ne
riconosce la validità e eredità riflessiva, tanto che potrebbe
essere commisurata alle teorie anticipatrici della Relatività
Ristretta - RR - e quantistica, visto il periodo e i mezzi di cui
disponevano questi geni del periodo classico. La presenza di una
teoria, apparentemente assurda, come quella di Parmenide, che può
essere rifiutata, modificata e rivalutata, fu di utilità
incommensurabile.
Infatti,
non esiste altra euristica. Anche oggi ci avviciniamo alle cose e
circostanze da conoscere - anche alle persone da conoscere,
intellettualmente ed emotivamente - con cautela, muniti o prevenuti
di tutte le tecniche adatte per fare entrare tali cose e persone nel
giro della nostra comprensione, che è divenuta principalmente
linguistica, anche se, reciprocamente, è ancora sentimentale e
affettiva.
Il
pensiero odierno come conoscenza diretta - non quella del filosofo
che cerca la fondazione di tutto in un atto iniziale e vergine, alla
maniera di Edmund Husserl [1859-1938] quella biblica - è in realtà
un pensiero scomposto, e quindi non pensiero ma comportamento
istintuale, perché la conoscenza del mondo circostante concepita
come reazione bio-psicologica è nella fase della nostra
umanizzazione di assimilazione diretta, di possesso, basata sulla
distruzione naturale e ambientalistica di ciò che viene posseduto,
che è metabolizzato ed entra a far parte o a conoscenza della nostra
umanizzazione.
DEMOCRITO
E IL PRINCIPIO DI RELATIVITÀ RISTRETTA
Democrito,
e mi spiace confutare l’interpretazione precedente di Popper,
anticipa più di un secolo prima, la riflessione di Aristotele nella
sua Fisica: “Ancora,
se l’essere contemporaneamente e il non essere né prima né dopo
significasse il trovarsi in uno stesso (singolo)
«ora» e se tanto l’antecedente quanto il successivo fossero in
questo «ora», risulterebbe che ciò che avverrà oppure ciò che è
avvenuto diecimila anni fa è avvenuto contemporaneamente all’oggi”.
In
una riflessione analoga si colloca l’antiperistasi
- spazio-tempo-spazio - aristotelica e platonica, che si potrebbe
interpretare anche in termini di contrazione dell’universo, ossia:
“Mentre
l’«ora», ossia il non essere né prima né dopo, significa esser
nel medesimo tempo e nell’istante, se si ammettesse la coincidenza
di ciò che è prima e di ciò che è poi nello stesso istante,
allora indubbiamente gli avvenimenti accaduti diecimila anni fa
sarebbero simultanee con quelli odierni, e nessuna cosa sarebbe né
prima né dopo in relazione ad un’altra”.
La
speciale intuizione di Democrito nel valutare «la natura del moto e
del tempo»
anticipa le riflessioni sulle teorie dei quanta che si svilupperanno
ben 2500 anni dopo: “Conseguentemente,
se uno vede contemporaneamente numerose - particelle -, le vede come
un unico - oggetto -, perché non è percepibile il singolo effluvio
che proviene da ciascuna di esse e che penetra negli occhi. Perciò
sembra essere unico l’effluvio che si produce in una sola volta e
che proviene da un unico oggetto visibile[…]essi
risponderebbero che proprio questo frequente fluire e passare delle
immagini costituisce la causa del fatto che molte immagini,
accumulandosi e quasi condensandosi, paiono essere una sola”.
Ma
non solo, anche l’idea di fenomeno ed epifenomeno kantiani, ossia
la sovrapposizione di fenomeni visivi che possono oggi essere
comparati ai fotoni e al loro propagarsi in quello che è stato
definito etere, ma che al tempo di Democrito e Ocellus Lucanus veniva
classificato o intuito come vuoto.
Democrito
colloca un oggetto D in un tempo A come bianco e in un tempo B un
oggetto non bianco, con un intervallo intermedio G di bianco e non
bianco; è la medesima disposizione del sillogismo che Aristotele
riprenderà un secolo dopo. Con il termine minore, il termine
maggiore e quello intermedio.
Seppur
rispettando le capacità intellettive di Aristotele, va presa in
considerazione la sua capacità interpretativa ed ermeneutica del
pensiero dei suoi predecessori dei quali ha saputo completarne il
messaggio sebbene sviluppando una riflessione teoretica efficace e
personalizzata.
L’intuizione
di Democrito apre la comprensione della percezione visiva degli
esseri umani che da scomposta e multimmagine diventa un’immagine
sola.
In
effetti così è stata percepita all’interno della teoria
quantistica la funzione dei fotoni e delle loro peculiarità nel
trasmettere fino a noi la luce e il calore del sole.
Oggi
è più facile e plausibile sorridere di queste considerazioni
retrodatate, poiché in quello che noi chiamiamo progresso abbiamo
inserito tutte le conoscenze e il sapere che la scienza ci ha svelato
ma che sono pervenute, nostro malgrado, da grandi pensatori del
periodo classico, ma che hanno avuto bisogno dell’intelletto e
intuizione umane per concretizzarsi in teorie scientifiche
empiricamente dimostrabili e dimostrate.
Infatti,
Einstein nella sua RR fa l’esempio di un treno - oggetto D di
Democrito - che viaggia alla velocità «v»
e un passeggero che cammina sul treno in direzione di marcia alla
velocità «w» mentre agli estremi dei binari A e B si scaricano
simultaneamente due fulmini: il bagliore del fulmine - il bianco A e
il non bianco B di Democrito - s’incontrerà per primo in quale dei
due punti?: “[...]Supponiamo
che il vagone ferroviario, nostro vecchio amico, viaggi sulle rotaie
con una velocità costante «v», e che una persona che cammini entro
tale vagone nel senso della sua lunghezza e precisamente nella
direzione di marcia con una velocità «w». Con quale rapidità o,
in altre parole, con quale velocità «W» la persona avanza,
relativamente alla banchina, durante il suo procedere? L’unica
risposta possibile sembra risultare dalla seguente considerazione: se
una persona restasse immobile, in un secondo essa avanzerebbe,
relativamente alla banchina, di un intervallo «v» numericamente
uguale alla velocità del vagone. In realtà però, come conseguenza
del fatto che la persona cammina, essa percorre in quel secondo un
intervallo suppletivo rispetto al vagone e quindi anche rispetto alla
banchina, intervallo che numericamente è eguale alla velocità con
la quale la persona cammina. In totale, percorre dunque, nel secondo
preso in considerazione, l’intervallo W=v+w relativamente alla
banchina[...]”.
In
tutta la nostra storia intellettuale, scienza e filosofia sono state
intimamente associate. Sono nate insieme, nell’antica Grecia, e
insieme sono fiorite durante la rivoluzione scientifica del
Cinquecento e del Seicento che ha inaugurato la scienza e la
filosofia moderna come le pratichiamo oggi.
L’assenza
di una distinzione risulta chiara dal fatto che si chiamasse ancora
filosofia naturale quella che oggi per noi è la Fisica, e che Newton
intitolasse Philosophiae
Naturalis Principia Mathematica
quello che oggi è per noi un capolavoro di fisica matematica.
Tuttavia la fisica matematica di Newton sembrava rompere decisamente
con la filosofia meccanicista, poiché ritraeva l’interazione
gravitazionale come un’azione a distanza immediata attraverso lo
spazio vuoto.
Un’interazione
che Democrito definì «forza della necessità»: “Non
è necessario che avvenga solo l’accumularsi - degli atomi - né
che nel vuoto si origini un vortice in cui può generarsi il mondo
conformemente a quella che si chiama «forza della necessità» né
che il mondo si accresca fino a quando si scontri con un altro mondo,
come conferma qualcuno dei cosiddetti fisici”.
Questa
«forza della necessità» si può ricondurre a quella forza -
esterna - alla quale i discepoli di Leucippo e di Democrito
ritendevano che gli atomi fossero assoggettati:
“[…]Allorché
diciamo che i colpi di fulmine A e B sono simultanei rispetto alla
banchina, intendiamo: i raggi di luce provenienti dai punti A e B
dove cade il fulmine si incontrano l’uno con l’altro nel punto
medio M dell’intervallo A÷B della banchina. Ma gli eventi A e B
corrispondono anche alle posizioni A e B sul treno. Sia M' il punto
medio dell’intervallo A÷B sul treno in moto. Proprio quando si
verificano i bagliori (giudicato dalla banchina) del fulmine, questo
punto Mꞌ coincide naturalmente con il punto M, ma esso si muove
verso la destra del diagramma con la velocità v del treno. Se un
osservatore seduto in treno nella posizione M' non possedesse questa
velocità, allora egli rimarrebbe permanentemente in M e i raggi di
luce emessi dai bagliori del fulmine A e B lo raggiungerebbero
simultaneamente, vale a dire s’incontrerebbero proprio dove egli è
situato. Tuttavia nella realtà (considerata con riferimento alla
banchina ferroviaria), egli si muove rapidamente verso il raggio di
luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che
proviene da A. Pertanto l’osservatore vedrà il raggio di luce
emesso da B prima di vedere quello emesso da A. Gli osservatori che
assumono il treno come loro corpo di riferimento debbono perciò
giungere a conclusione che il lampo di luce B ha avuto luogo prima
del lampo di luce A. Perveniamo pertanto al seguente importante
risultato: Gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non
sono simultanei rispetto al treno e viceversa (relatività
simultanea).
Ogni corpo di riferimento (sistema
di coordinate)
ha il suo proprio tempo particolare; un’attribuzione di tempo è
fornita di significato solo quando ci venga detto a quale corpo di
riferimento tale attribuzione si riferisce. Orbene prima dell’avvento
della teoria della Relatività, nella fisica si era sempre
tacitamente ammesso che le attribuzioni di tempo avessero un
significato assoluto, cioè fossero indipendenti dallo stato di moto
del corpo di riferimento. Abbiamo però visto or ora che tale ipotesi
risulta incompatibile con la più naturale definizione di
simultaneità[...]”.
Le
opere di Aristotele pervenuteci, che sono la raccolta del materiale
preparato per le sue lezioni e non per la pubblicazione, sono formate
di parti nate in tempi diversi e rispecchianti interessi diversi. Le
differenti opinioni e le contraddizioni che si riscontrano
nell’ambito di non poche opere e addirittura nell’ambito delle
maggiori - a cominciare dalla Metafisica
- si spiegherebbero proprio in funzione dell’idea d’evoluzione di
Aristotele e dei connessi mutamenti di tale prospettiva.
Ciononostante,
fra la posizione di Platone e quella di Aristotele c’è una
differenza essenziale, che capovolge il nesso fra «opere pubblicate»
e «lezioni tenute all’interno dell’accademia»: ciò che dà
senso coerente e compiuto alle opere pubblicate da Platone è ciò
che egli non ha reso pubblico se non nella dimensione della pura
oralità dialettica - e che noi conosciamo attraverso la tradizione
indiretta, ossia attraverso le testimonianze dei discepoli -; invece
ciò che dà senso completo alle opere «non pubblicate» di
Aristotele e composte da lui per i suoi corsi - le uniche che ci sono
pervenute - sono quelle «pubblicate».
Probabilmente
la teoria atomistica del vuoto sembra essere somigliante alla teoria
spaziale di Galilei e di Newton, mentre l’horror
vacui aristotelico
sembra avere una comunanza con la teoria del «campo» di Einstein:
“[…]I
risultati di tutti questi fatti ed esperimenti, fuorché di uno,
l’esperimento di Michelson e Morley, furono spiegati da H. A.
Lorentz in base all’ipotesi che l’etere non partecipi del moto
dei corpi ponderabili, e che le parti dell’etere non posseggano
alcun moto relativo le una rispetto alle altre. L’etere appariva
quindi, per così dire, come la personificazione di uno spazio
assoluto. L’indagine di Lorentz fece ancora di più. Essa spiegò
tutti i processi elettromagnetici e ottici all’interno dei corpi
ponderabili allora conosciuti, in base all’ipotesi che l’influenza
della materia ponderabile sul campo elettrico -
e inversamente -
fosse dovuta unicamente al fatto che le particelle costitutive della
materia trasportano cariche elettriche, le quali partecipano al moto
delle particelle. Riguardo all’esperimento di Michelson e Morley,
H. A. Lorentz mostrò che il risultato ottenuto per lo meno non
contraddice la teoria di un etere in quiete[…]”.
La
caratteristica della scienza moderna sembra definita dalla
transizione dalla fisica di Newton a quella di Einstein, per esempio
in cui un quadro o paradigma omnicomprensivo sia stato scalzato da un
altro, radicalmente diverso. Invece, come ci ha dimostrato lo studio
della storia dei classici essa è un continuus
di idee e concetti che sono stati indicati e che sono state
interpretate e non cambiate dai nostri scienziati, poiché le leggi
della Natura che ci hanno accompagnati sono rimaste invariate nelle
loro forme, ciò che è cambiato è la capacità ermeneutica degli
esseri umani e quella della loro insipienza nella gestione etica
delle risorse naturali.
Senza
dubbio il messaggio che ci proviene dai classici come Lucanus,
Democrito, Lucrezio, Aristotele, Platone, Socrate, per citare i più
importanti e conosciuti, è quello di un rispetto antropo-genetico
verso la Natura matrigna, i quali consideravano l’istante - l’«ora»
- vissuto come un sillogismo tra un passato e un futuro: “[…]e
che esistano i tempi futuro e passato senza che esista il presente e
che esistano il «testé» e lo «stare per» senza che esista
assolutamente l’«ora»”.
Dunque,
gli Atomisti Antichi costituiscono uno dei punti-chiave nella storia
spirituale dell’Occidente, sia a livello filosofico sia a livello
scientifico.
Nasceva
così il concetto di «atomi» - indivisibili -, tutti uguali
nell’essere, ciascuno, unità-immutabili, differenziantisi fra di
loro per figura geometrica, ordine e posizione.
Gli
«atomi» sono materiali, e quindi un «pieno», che di necessità
richiede il ruolo di un «vuoto», il quale rispetto a essi è un
«non-essere», ma che è la condizione che permette il loro di
essere-molti e di restare in movimento.
Sempre
secondo gli atomisti, originariamente gli «atomi» si muovevano,
volteggiando in tutte le direzioni, in modo analogo al pulviscolo
atmosferico che si vede appunto volteggiare mediante i raggi di sole
che filtrano dalle finestre.
Nasce,
quindi, un movimento vorticoso, in cui vari «atomi» si aggregano
fra di loro: i simili si uniscono con i simili, i più pesanti si
portano verso il centro, i più leggeri verso l’esterno, e nasce
così il mondo e le cose del mondo.
Ed
entra in gioco il ruolo del sole non solo come fonte vitale, ma come
stella lucente e palpitante di energia.
Per gli Atomisti nulla avviene e nulla è pensabile razionalmente
senza una causa.
Allora,
come tutte le altre cose, anche il corpo umano è formato da un
incontro di «atomi». Infatti, se analizzassimo una parte minuscola
del sole scopriremo che l’elemento più abbondante è l’idrogeno,
seguito dall’elio, dall’ossigeno, dal carbonio e dall’azoto. Se
analizziamo, invece, un campione di pelle umana troveremo che: le
percentuali dell’idrogeno, dell’ossigeno, del carbonio e
dell’azoto sono paradossalmente simili a quelle del Sole.
L’ossimoro - nel nostro sistema, visto che non ne conosciamo altri
- in questa miscela di elementi sono proprio i pianeti solidi che,
del resto, rappresentano meno dell’uno per cento della massa
totale: “Nella
natura delle cose si deve ricercare (la
risposta a)
due (questioni):
quale sia, prima di tutto, la materia costitutiva di ciascuna (cosa),
e poi quale sia quella forza da cui è costituita ciascuna (cosa)”.
I
composti che derivano dalle varie combinazioni di questi elementi
sono innumerevoli e, con alcuni di loro, gli esseri umani hanno
perfezionato una grande familiarità in quanto sono alla base della
nostra sopravvivenza: l’acqua e l’anidride carbonica. Non è un
caso che le forme biologiche sviluppatesi nel sistema solare abbiano
tutte come denominatore comune il carbonio, l’idrogeno e
l’ossigeno, gli elementi, cioè, più comuni in ogni zona del
sistema. Naturalmente molti elementi influenzano le possibilità di
sopravvivenza dei composti del carbonio e dell’acqua.
Tra
questi sono estremamente importanti la temperatura ambientale, ovvero
la distanza dal Sole, e l’attrazione di gravità, cioè la massa
del corpo.
Se
la temperatura fosse troppo alta l’acqua si trasformerà in vapore
che, una volta raggiunti gli alti strati atmosferici, verrà
dissociato nuovamente dalla radiazione solare nei suoi componenti
iniziali.
Nell’ipotesi
che l’energia ceduta dalla radiazione agli «atomi» prodotti dalla
dissociazione dell’acqua sia tale da permetter loro di sfuggire
all’attrazione gravitazionale del corpo celeste da cui sono stati
degassati, quest’ultimo verrà depauperato in breve tempo sia
dell’idrogeno che dell’ossigeno. Ruolo molto simile avranno i
composti gassosi del carbonio che, però, essendo più pesante, dopo
la foto-dissociazione sedimenterà nuovamente al suolo combinandosi
con i minerali presenti al suo interno.
Ciononostante,
per Aristotele il vuoto non esisteva poiché lo spazio era comunque
come il luogo - topos, termine proprio del lessico degli atomisti -
occupato da un corpo. Il concetto di vuoto, a questo punto,
sembrerebbe contradditorio perché in esso teoricamente un corpo non
saprebbe come e dove muoversi, non esistendo alcuna distinzione fra
alto e basso o fra un luogo e un altro.
Così
per l’antiperistasi
di
Ocellus Lucanus, appunto, l’aria che spinge un proietto, se,
invece, esistesse il vuoto non esisterebbe e, quindi, non si
giustificherebbe il moto di un proietto.
EVOLUZIONISMO
E INVOLUZIONISMO DI OCCELLUS LUCANUS
«Esistiamo
per merito di un difetto o di un errore» Sembrerebbe proprio un’idea
plausibile, da quando, alla fine degli Anni Venti, Paul Dirac
ipotizzò per primo l’esistenza dell’antimateria, e poi quando si
scoprì e dimostrò che materia e antimateria, incontrandosi, si
annichilano; è uno dei problemi che i fisici hanno continuato a
porsi indagando alla radice le ragioni dell’esistenza dell’universo
e quindi anche di noi stessi: “Se
l’universo viene ad essere dissolto, è necessario ch’esso sia
dissolto in ciò che è o in ciò che non è; è impossibile ch’esso
sia dissolto in ciò che è dappoicché ciò che è, è l’Universo
stesso, o, almeno una certa parte dell’Universo; esso d’altra
parte non può essere dissolto in ciò che non è poiché ciò è
parimenti impossibile, che ciò che è composto di parti inesistenti:
che ciò che esiste sia dissolto in ciò che non esiste. Dunque
l’Universo è indistruttibile e imperituro”.
Se
per «materia» intendessimo «ciò che è» e per antimateria «ciò
che non è», nel breve trattato dei principi di φιλοσοφία
speculativa e iniziatica sulla natura del Mondo - l’Universo
di Lucanus
italico - si troverebbe il germe di tutta la dottrina fondamentale di
induzione sulla creazione e l’esistenza dell’Universo eterno e
sulla materia incorporea di un Ente intelligente primigenio, del
quale tanto polemizzarono i filosofi iniziati; probabilmente, in esso
si troverebbero le basi di molte teorie che sembrano moderne, come
quelle di evoluzionismo
e di involuzionismo
e sulla immutabilità dell’ordine Universale di Occellus
Lucanus.
Non
esiste infatti nessuna ragione perché all’inizio di tutte le cose,
nei primi istanti successivi al big
bang,
«materia» e «antimateria» esistessero in quantità diverse.
Dunque
l’esplosione originaria avrebbe dovuto produrre così una quantità
enorme di particelle, ma anche una probabilità altissima che
particelle e antiparticelle si incontrassero e annullassero a
vicenda. Probabilmente, sarebbero così rimaste in attività quelle
poche particelle e antiparticelle che il caso - chaos
- avesse deciso di non far incontrare.
Ognuna
di esse - se guardassimo questa storia con la visuale dell’unico
modo di manifestarsi del reale in quegli istanti, ossia, quello della
particella - vivrebbe con l’incubo di incontrare prima o poi la
propria antiparticella, per suicidarsi reciprocamente.
Forse
potrebbe sembrare un paradosso, ma nell’immaginazione dell’homo
matematicus,
sempre alla ricerca di equazioni semplici ed eleganti e soprattutto
sempre spinto da quel grande bisogno di simmetrie che aveva portato
Dirac a postulare l’esistenza, accanto a ogni particella, della sua
antiparticella, identica in tutto, ma di carica elettrica opposta.
In
realtà non si tratta solo di un bisogno soggettivo di perfezione
nella formalizzazione della descrizione matematica della natura.
L’«antimateria»
c’è, poiché è stato osservato sperimentalmente che l’elettrone
ha il suo positrone, che il protone ha il suo antiprotone.
Ma
l’«antimateria» non va considerata come il «nulla», ma
l’opposto alla sua definizione, come nel dualismo della
dissociazione hegeliana, o dell’eros platonico, dove ogni cosa
sussiste per il suo opposto o contrario, così come il tempo e il non
tempo, i quali scorrono in direzioni opposte.
Già
la nostra breve e ultima storia antropologica occidentale,
cronologicamente si è vista determinare dalla soglia limite della
nascita di Gesù una prospettiva decrescente spazio-tempo verso uno
zero temporale, per iniziare la successiva a partire da essa e
sommandola in successione di anni crescenti.
Per
questo tale soglia è stata classificata e indicata come prima e dopo
la nascita di Gesù. Due condizioni opposte che indicano
simbolicamente la direzione temporale decrescente verso uno zero e la
sua susseguente crescita da zero.
Un
esempio per giustificare il processo di una decelerazione e la
susseguente espansione dell’universo con il termine evoluzione
-
evoluzionismo
cosmico
- e l’inizio della sua accelerazione e susseguente contrazione con
involuzione - involuzionismo
cosmico
-, quest’ultima in direzione opposta alla precedente.
In
verità è per questo che abbiamo la sensazione di un’accelerazione
cosmica, non perché l’universo stia ancora espandendosi, bensì in
senso opposto, perché si starebbe contraendo su se medesimo: “Se
l’universo dunque è ingenerato e corruttibile, esso deve per
conseguenza cambiare dal meno al più e dal peggio al meglio; e così
in seguito egli deve cambiare dal più al meno e dal meglio al
peggio; è ancora necessario che il mondo [sempre
nell’ipotesi ch’esso sia stato prodotto]
prenda un accrescimento ed una più grande forza, ed infine egli
deperirà e finirà; dappoicché tutta la natura PRODOTTA ha una
progressione di tre termini e di due intervalli. I tre termini sono
la generazione, la forza e la fine; gli intervalli sono quello dopo
la nascita sino alla forza (big
bang)
e quello dopo la forza sino alla fine (big
crunch)”.
Il
lettore di Considerazioni
sull’Universo
è, quindi, condotto per mano di Lucanus
in
un’antiperistasi
evocativa nella quale si intravedono Talete e Platone, Galileo e
Newton, Kant, Mach, Einstein, e tanti altri, ognuno con un suo
aneddoto scientifico in mano da raccontare, curioso, stravagante,
calmo, angosciante.
Non
possiamo sapere quale opinione esprimerebbe oggi Lucanus
a
distanza di 2500 anni sui nostri risultati e riflessioni
sull’astronomia; sicuramente ne sarebbe affascinato, come sarà
stato appassionato nelle sue considerazioni sull’astronomia del suo
tempo, ma non avrebbe certo condiviso l’uso di una scienza
applicata e costata miliardi di dollari, e che alla fine ha mantenuto
poco di ciò che aveva promesso, in una nuova e disastrosa
disciplina: l’astrospreco.
Ma
torneremo più avanti, alla comparazione tra la antiperistasi
e quella di evoluzionismo
e involuzionismo
cosmici di
Lucanus.
Come
facciamo noi ad esistere, dunque, in questo cosmo simmetrico e nel
contempo asimmetrico? Fortunatamente ogni teoria fisica della natura,
comprese quelle ancora non compiute di grande unificazione delle
quattro forze fondamentali, anche quella della «supersimmetria»,
prevede la possibilità del difetto, della rottura della simmetria in
particolari condizioni.
Avvenne
così, in quel primo miliardesimo di secondo della nascita
dell’universo che conosciamo, che quel difetto, quella rottura di
simmetrie perfette, permettesse la sopravvivenza di un protone su un
miliardo, di un elettrone su un miliardo.
L’universo,
che aveva così forse corso il rischio di essere vuoto, si popolava,
invece, di galassie, stelle, pianeti: di vita e di esseri umani. La
storia dei passi compiuti dalla ricerca scientifica per andare alla
radice di questi problemi, è ricostruita nel numero di aprile 1996
di «Le Scienze» edizione italiana di «Scientific American», da
Robert Adair, direttore associato dei programmi per la fisica
nucleare e delle alte energie al Brookhaven National Laboratory.
Adair fa nel suo articolo un largo uso di Alice, la creatura di Luis
Carrol, e dei suoi famosi e fantastici specchi.
Così
progressivamente, di fronte a ogni problema di simmetria, Adair si
poneva e pone ancora oggi la domanda: “Può
Alice, magari destatasi da un sogno di Carrol, dire se si trova nel
mondo dello specchio o nel mondo reale?”
Allora, Alice ci guida così per mano fra mesoni «K» e mesoni «p»,
tra forze micro-deboli e super-deboli, fra simmetrie di carica e di
parità: sempre alla ricerca della «grande equazione».
Alvaro
De Rujula, spagnolo, fisico teorico del CERN, il centro ginevrino di
ricerca sulla fisica nucleare, rilasciava a La Thuile - nel corso dei
Rencontres de Physique che si tenevano là ogni anno, sotto il Monte
Bianco, organizzato da due fisici italiani, Giorgio Bellettini e
Mario Greco, in collaborazione con l’assessorato alla Cultura della
Valle d’Aosta - divagazioni sottili sui temi fondamentali della
fisica, sui perché noti e su quelli ancora completamente privi di
risposte: “Il
nostro universo è fatto in modo molto buffo”.
Fra
una sessione e l’altra, fra una relazione sui tentativi di scoprire
una nuova particella chiamata «Top Quark», e una sulle nuove
macchine acceleratrici che sarebbero sorte entro il 2000 in Europa -
l’odierno LHC Large
Hadrom Collider
di Ginevra -, Unione Sovietica, Stati Uniti, egli dichiarava di
quanto fosse buffo e incompreso, il nostro universo: “Per
ogni particella di materia c’è un miliardo di particelle di luce.
E praticamente non c’è niente antimateria. È un universo
completamente asimmetrico, e per il fisico, al quale piace che le
cose siano sempre molto perfette, simmetriche, tutto ciò è
difficile da accettare. Un fisico non avrebbe mai fatto l’universo
così. Non gli sarebbe mai venuto in mente di farlo così brutto.
Allora, come hanno risolto questa situazione insostenibile per le
loro menti matematiche? Fortunatamente esistono delle teorie secondo
le quali l’universo nei primi istanti del big
bang
fosse perfettamente simmetrico alle sue origini. Poi, nel corso della
sua evoluzione, siamo progressivamente arrivati alla situazione
attuale, che ha la medesima probabilità di qualsiasi altra. È come
quando c’è una bollicina in una tazza di tea e sale in una
qualsiasi direzione, nonostante sia la tazza sia la bollicina siano
perfettamente simmetriche. Insomma non ci sarebbe niente di strano se
oggi fossimo fatti completamente di antimateria. Del resto il suo
nome deriva soltanto dal nostro antropocentrismo, per cui chiamiamo
materia ciò di cui siamo fatti e antimateria le altre particelle,
dotate di carica opposta alle nostre. La prima persona che ha
presentato una teoria ragionevole, capace di spiegare in questo modo
l’attuale asimmetria dell’universo, è stato il fisico sovietico
Andrej Dimitrovic Sacharov, che quindi non ha inventato solo la bomba
H
sovietica”.
Ma
il tema centrale del meeting di La Thuile era stato soprattutto un
altro, anch’esso strettamente legato a questioni di simmetria, al
cosiddetto problema del «Top Quark», una delle particelle
fondamentali, l’unica non ancora osservata in nessun laboratorio, e
quindi, perché questa particella dovrebbe necessariamente esistere,
sebbene nessuno l’abbia mai rilevata?
Quindi,
per quale motivo senza di essa i conti non tornano. Le particelle
fondamentali sono, infatti, divise in due grandi gruppi: da una parte
ci sono i leptoni, il più noto dei quali è l’elettrone e
dall’altra i Quark, due dei quali sono i costituenti di protoni e
neutroni, cioè dei nuclei atomici.
Poiché
i leptoni rilevati sono 6, mentre i Quark sono 5, ecco presentarsi
una scomoda e inusuale asimmetria. Si evince, che se si trovasse il
«Top», ossia, il «Quark» mancante l’obbiettivo sarebbe
raggiunto; ma è tutt’altro che facile, perché non se ne conosce
la massa, e quindi, essendo massa ed energia equivalenti, dalle
riflessioni di Einstein in poi, non si sa quanta energia serva per
produrlo.
Esso
è un enigma cui stanno lavorando i fisici sperimentali di tutto il
mondo da molti anni: un obiettivo che non sarà neppure l’ultimo.
Dopo il «Top» toccherà, infatti, alla cosiddetta particella di
Higgs, un oggetto evanescente, di massa indeterminata, che la
cosiddetta «teoria standard», quella che sta alla base della fisica
dell’infinitamente piccolo, vuole raggiungere a tutti i costi, per
far «quadrare il cerchio». E poi, oltre la particella di Higgs, ci
sono altri grandi misteri e al primo posto il motivo della
sussistenza di così tante particelle, dal momento che ne bastano 4 -
elettrone, neutrino, Up Quark e Down Quark - per fare tutta la
materia dell’universo, compreso l’essere umano. Ma qui, quando si
comincia a chiedersi il motivo, è facile sconfinare oltre i limiti
propri della scienza, oppure, forse, si tornerebbe proprio alla
radice della scienza medesima: “La
forma del mondo, il movimento, il tempo e la sostanza non avendo né
principio né fine sono sicure garanzie che l’Universo non è mai
stato prodotto e non sarà mai dissolto.
Ecco,
che la ricerca di tale radice ci riporta al pensiero di
Lucanus,
considerato uno dei più insigni rappresentanti del pitagorismo e
vissuto nel V secolo a.C., perché in verità, nessun’altro ha
anticipato prima di Considerazioni
intorno all’universo,
un’idea coerente di evoluzionismo
e involuzionismo
cosmici,
in un’opera più arguta che colta, comunque oggi esplicitamente
rivolta a un pubblico non strettamente accademico ed erudito.
Nel frattempo si sono susseguiti numerosi altri scritti sul tema
dell’antiperistasi,
ma quasi nessuno ha raggiunto il livello filosofico della sua
sintesi, degna del genio come sosteneva Shakespeare: “Gli
uomini e gli altri animali cangiano successivamente e corrono presto
al termine della natura. Poiché non vi è affatto per essi un
ritorno verso il primo stadio né di antiperistasi e di mutamento,
come ve ne sono per il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra[…]Tutte
queste antiperistasi e questi differenti mutamenti formano delle
figure e degli indici che l’Universo, o il tutto che contiene tutti
i corpi, conserva e così tutte le cose che in lui sono contenute e
quelle che in lui furono distrutte”.
Sebbene
l’elemento che abbia stimolato la curiosità umana, compresa quella
di Lucanus
l’italico,
sia sempre stato legato alla sopravvivenza della specie umana, essa è
sembrata insensata, quando ha creduto di raggiungere con mezzi
tecnici ciò che fosse solo il riflesso della vita sulla terra.
Per
lui sia evoluzionismo
sia involuzionismo
come eventi vengono classificati in un processo di «mutamento»
condiviso tra produzione
e dissoluzione.
È
difficile riconoscere se lo studio e la pratica dell’astronomia sia
stato un tentativo maldestro o risolutore di soddisfare tale atavica
curiosità.
I
brevi brani che compongono il suo testo sono stati scritti nel
rispetto di una continuità tematica, ma anche in realtà di una
profondità, di una passione, e anche sembrerebbe di una difficoltà,
sconfinate, come fosse sconfinato l’Universo di cui si occupò,
benché a sua insaputa fosse formato dai miliardi di galassie, che
come la nostra comprendono miliardi di stelle.
Il
testo inizia con un aneddoto, ossia, una citazione in terza persona e
un riferimento biografico, per esplodere come il suo Universo, per
noi dopo il big-bang,
nella distensione di considerazioni filosofiche condotte secondo la
formula della «libera co-varianza» cara a Einstein, nel raccontare
in successione storie che partono dalla percezione terrestre del
firmamento e si sviluppano attraverso limpidi e anticipatori
riferimenti alla φιλοσοφία,
alla scienza, alla fisica, alla biologia, all’astronomia, alla
teologia, alla biogenetica della polis:
“Il
fuoco ove sia concentrato in un punto di riunione ingenera l’aria e
l’aria l’acqua e l’acqua la terra: e lo stesso ritorno e lo
stesso periodo di mutamento ha luogo dalla terra al fuoco, di dove
egli fuoco ha cominciato a mutarsi. Allo stesso modo i frutti, le
piante, gli alberi, hanno ricevuto un principio di generazione per
mezzo dei semi, in seguito essendo divenuti frutti e giunti alla loro
perfezione essi si risolvono di bel nuovo nel loro germe, compiendo
la natura questa progressione per mezzo della stessa cosa e nella
stessa cosa”.
È
nel termine perfezione che Lucanus
anticipa il vero concetto di evoluzionismo,
poiché una volta raggiunto la top quality della sua specie, tutto
ciò che ne deriva dopo è inteso come mutamento, ossia, un
involuzionismo
verso una naturale involuzione antropica.
In
passato, per esempio, si riteneva che tutte le galassie si fossero
formate nel medesimo istante cosmico, ora, invece, si ipotizza che la
loro formazione sia determinata dall’espulsione da galassie
precedenti. Questa nuova immagine delle galassie impone alla moderna
φιλοσοφία
la capacità di capire paradigmi alternativi, senza la pretesa di
fornire princìpi indipendenti dai dati della scienza.
Alcuni
scienziati giustamente difendono il principio antropico, secondo cui
l’universo deve possedere le proprietà necessarie per la nascita
dell’essere umano come essere fisico e biologico.
Perciò,
partendo dal fatto che «io esisto», posso dedurre che ciò è stato
reso possibile da un’armonizzazione in vari campi, ossia, da una
convergente presenza di elementi che hanno appunto garantito la «mia
esistenza».Un problema, questo, che né la teoria cosmologica dello
stato stazionario, né quella del big-bang
riuscirebbero mai a spiegare in termini soddisfacenti.
Si
ritiene, che il principio antropico non sia scientifico ma
metafisico, perché, secondo Popper, non può essere smentito. Si
evince che anche la storia della scienza è essa medesima una scienza
empirica, anche se abbia concesso successivamente una grande
importanza alla fisica classica, la cui comprensione è possibile
rileggendo la fisica odierna. Anche i modelli cosmologici di
Anassagora e di Epicuro considerati allora «perdenti» possono
essere ora considerati anticipatori di teorie più moderne, ossia, di
quelle «vincenti»? L’astrofisico australiano Paul Davies oltre
alla teoria della variazione della freccia del tempo - time’s
arrow
-, ossia della contrazione dell’universo, sostiene l’idea di un
cosmo intelligente, che è stata presa in prestito da altri
scienziati che hanno elaborato l’idea di an
intelligent design,
tanto da intendere anche un cosmo intelligente. Allora, quanto
possono essere connessi caos e intelligenza? Oppure che debba
trattarsi di un caos intelligente? Il paradigma di un corso evolutivo
unico è quindi irrilevante, poiché sarebbe come se tali sistemi
possedessero una «volontà propria»; forse, proprio per effetto di
questa «volontà propria» c’è il continuo rischio di una caduta,
di uno scivolamento verso un eccesso di vitalismo, e proprio quando
ci riconosciamo in Gaia: la dea greca che è la Terra.
E
quindi, come un sistema autoregolatore e condiviso che ha permesso
alla vita di nascere e svilupparsi nelle mutevoli condizioni dei
millenni. “Esso
- dice Davies - possiede
anche una piacevole qualità teleologica: è come se la vita
prevedesse la minaccia e agisse in maniera da eliminarla.”
Probabilmente,
ad una scarsa luminosità iniziale del sole, corrispondeva sulla
terra un’abbondanza di anidride carbonica capace di generare quello
che oggi chiamiamo con timore effetto serra. “Ma,
mentre il sole diveniva sempre più caldo, la coperta di biossido di
carbonio veniva gradualmente rosicchiata dalla vita. Inoltre,
l’ossigeno produsse uno strato di ozono nell’atmosfera superiore
in grado di bloccare i pericolosi raggi ultravioletti.”
L’obiettivo
principale di Davies non consiste nel dare un’anima all’universo,
o anche solo alla Terra, o, infine, anche solo all’essere umano,
ma, probabilmente negare ogni parentela con il vitalismo; il suo
obiettivo è spezzare un poderoso sostegno in favore dell’olismo, e
allora contro il riduzionismo. La scienza, infatti, tende sempre più
a schierarsi intorno a questi due poli interpretativi della natura:
la
«Theory Of Everything» - Toe - e la «Theory Of Organization» -
Too .
La
prima è la posizione sulla quale è schierata la stragrande
maggioranza dei fisici particellari, dei fisici teorici, dei
cosmologi e degli astrofisici, che ormai fanno parte di un unico
circuito scientifico battezzato «astroparticelphysics»:
astrofisica e fisica delle particelle, fuse in un tutt’uno, come
infinitamente grande e infinitamente piccolo, secondo un’immagine
fatta propria da Davies.
Questi
sono i riduzionisti, i tifosi della Toe, che cercano appunto la
«teoria
del tutto»,
l’unificazione di forze, campi e particelle elementari all’interno
di un unico modello teorico capace di spiegare tutti i fenomeni a
livello microscopico.
Ma
la grande teoria unificatrice, dal punto di vista riduzionista, non
dovrebbe servire solo a questo. Secondo questo fronte di dissidenti
sulla lettura della Natura, essa dovrebbe essere sufficiente a
spiegare anche tutti i fenomeni a livello macroscopico, essendo tutta
la Natura nient’altro che il frutto delle interazioni esistenti a
livello microscopico.
Per
Davies risulta un problema quasi ossessivo, ossia, dimostrare dunque
che quei due numeri di Feigenbaum non sono lì per caso, ma che sono
almeno il sintomo che ciò che procede verso il caos lo fa secondo
qualche regola e che il caos deve avere una sua definizione
matematica: ossia, che il cosmo è intelligente.
Si
deve però ammettere che l’eventuale intelligenza del cosmo, non
può essere paragonata all’intelligenza umana; sarebbe come
paragonare l’intelligenza artificiale all’intelligenza umana.
Egli
talvolta si lascia tentare da riflessioni azzardate: “Abbiamo
visto come il determinismo non implichi necessariamente la
predicibilità: alcuni sistemi molto semplici sono infinitamente
sensibili alle condizioni iniziali. La loro evoluzione temporale è
così complessa e irregolare da essere essenzialmente inconoscibile.”
La
spiegazione delle parti elementari di ogni sistema permetterà allora
di capire anche il funzionamento dei sistemi più complessi, dal
pendolo impazzito al battito d’ali di una farfalla in Amazzonia.
Anche i numeri magici di Feigenbaum troverebbero allora una propria
sistemazione soddisfacente, per loro come per la scienza, perdendo
perciò il loro alone di magia. Paul Davies ovviamente tifa per gli
olisti e per la Toe.
Secondo
questi, i sistemi complessi, in primo luogo quelli che stanno alla
base della vita, potranno essere compresi solo sulla base di principi
fondamentali completamente nuovi.
Secondo
lui la scienza dei sistemi complessi, quella che studia il caos
deterministico, sarà capace di dare un senso alle capacità creative
proprie del mondo in cui viviamo.
Come
dice Karl Popper: “La
storia dell’evoluzione suggerisce che l’universo non abbia mai
smesso di essere creativo o «inventivo».
E se l’universo inventa davvero cose nuove non si può pensare che
la sua descrizione fondata sulle proprietà della fisica delle
particelle sia sufficiente. Ma nessuno, nel mondo scientifico, è
ormai totalmente determinista. Quando Davies accusa i fisici di voler
ridurre l’universo ad un’unica, onnicomprensiva equazione
lagrangiana, sembra voglia attribuire loro l’idea che tutto era già
scritto nell’istante del big
bang.
La realtà è che bisogna scegliere fra un modello che veda
l’evoluzione, sia pure creativa, come il frutto di fluttuazioni
causali, e un altro che va alla ricerca di una mente insita nelle
cose, di un finalismo dei sistemi complessi. Davies, su questo, ha le
idee chiare: l’ impressione dell’esistenza di un disegno globale
è schiacciante.”
Anche
Lucanus diceva : “È
nel tutto e cioè nell’Universo, che la generazione esiste e che si
trova pura la causa della generazione”.
Ciononostante,
Il
cosmo intelligente
di Paul Davies a giudicare da questo approccio, non parrebbe molto
intelligente. Dove starebbe l’intelligenza, se egli ci guida a
scoprire che le previsioni del tempo sono assolutamente
inattendibili, proprio per quello strano «effetto farfalla»?
Ma,
quella farfalla sta lì a mostrare che, come negli altri casi presi
in esame, sia sufficiente una piccola variazione delle condizioni
iniziali per determinare, dopo un pò di tempo, la scelta di una
evoluzione anziché di un’altra, fra un numero di possibili
evoluzioni sempre più alto man mano che si va avanti.
L’epistemologia di Popper si basa anche su una affermazione, assai
discutibile, poiché sostiene che la teoria emerge da una dinamica di
falsificazione.
Una
teoria non può essere dimostrata valida, ma può solo,
eventualmente, essere dimostrata non valida; risulta un’elaborazione
di un certo tipo, che viene affidata ad una selezione, ad una lotta
per la vita culturale, in uno schema sostanzialmente darwiniano.
Qualunque
teoria inizialmente va bene; quindi per un determinato fatto
potrebbero essere elaborate in via puramente combinatoria n
ipotesi, selezionate «a posteriori» a confronto con i fatti, ossia,
tutte falsificate tranne eventualmente una: la prima. Ma qual è la
prima? Ciò è del tutto contrario alla meccanica della conoscenza e
del linguaggio.
Un’ipotesi
- e una teoria, successivamente - vengono elaborate in modo mirato,
ossia, in base a considerazioni preesistenti, di tipo sostanzialmente
inferenziale e spesso analogico.
Quindi,
se l’indagine sul metodo scientifico diventasse subito una rivolta
contro la scienza ufficiale essa non potrebbe essere un canale
definito, piuttosto una collezione di procedure estemporanee,
provenienti dai punti più diversi del suo orizzonte.
Occorre
anzitutto abolire il metodo, per allentare i vincoli, lasciare
lavorare la fantasia, e riflettere talvolta ad
absurdum.
Rousseau sosteneva che più dell’ignoranza facesse paura una
scienza appresa con un metodo sbagliato.
L’accusa
anche oggi è, forse, di aver una fiducia smisurata nel «metodo»
anziché sostenere altre procedure, come intuizione e fantasia,
servendosi inoltre delle componenti metafisiche di Popper.
Non
si considera che questi fatti sono naturalmente incorporati - per
quanto i termini siano ambigui e da usarsi con grande cautela - nella
costruzione logica e razionale delle ipotesi.
Sembra
che la ragione risulti assai più complessa della logica di un
calcolatore elettronico, ed è quanto speriamo di aver ben messo in
evidenza quando si è parlato del modo di costruire le ipotesi, che
non è solo per tentativi ed errori, ma per coerenza interna
confrontabile con una realtà.
Occorre
credere, invece, che tutto quanto sia valido nella scienza sia
interno alla conoscenza, e di questa l’intuizione o l’immaginazione
sono state elemento centrale sia per Bruno sia per Kant.
Ciò
generalmente da noi è chiamata razionalità, sicché può
significare una corrispondenza della conoscenza ai suoi meccanicismi.
La razionalità è caratterizzata anche dai meccanismi
dell’intuizione kantiana, e non solo di un nostro particolare
concetto di razionalità, deformato talvolta da coloro che vogliono
parlare di crisi della ragione. Così, la ragione, in senso kantiano,
è un meccanismo in crisi progressiva, e funziona perché è sempre
in crisi?
Ma
è una crisi interna, costitutiva. L’immaginazione bruniana,
invece, per se medesima non riesce più a spiegarci nulla; infatti,
vista nel quadro delle ipotesi, essa appare un momento fondamentale
della razionalità. Quindi non risulta un procedimento corretto, né
tantomeno produttivo, quello di sostenere che la scienza sia
razionale sia illuministica vada ridimensionata di conseguenza, anche
se attribuita per convenienza all’illuminismo, al positivismo, al
neopositivismo logico, o altro.
La
scienza «reale» è dunque quella che opera, che mette assieme i
dati, che costruisce le teorie, che influenza la realtà, perché ne
fa parte. È, quindi, su questa scienza che dovrebbe operare il nuovo
epistemologo, e non sulle costruzioni artificiali di altri
epistemologi. Allora, ciò che egli deve spiegare è il cammino della
scienza nel suo complesso, fermo restando che questa variazione di
prospettive è costante, perché è specifica del metodo scientifico,
ma sempre nello studio della Natura. Ciononostante, un movimento in
progress si effettua non quando il quadro teorico appare per sé
nuovo e appagante, ma quando mette in luce una semplice realtà -
come del resto sosteneva Poincarè - e questa si dimostra tale,
perché si riverbera anche su realtà diverse e spesso molto lontane
da quella prima realtà, poiché avrebbe effetto sulla rete
complessiva del dominio scientifico.
Il
nuovo quadro teorico non deve essere valutato per quelle improbabili
ragioni che sostengono i patetici esteti di una scienza appresa con
un metodo sbagliato, sebbene solo apparentemente più bello, più
comodo, più semplice, ma perché spiega meglio anche fenomeni
diversi da quelli per cui fu costruito, e può intessere in modo più
conveniente il discorso scientifico moderno.
Nel
medesimo tempo dimostra l’intreccio della realtà, permette altre
ipotesi di lavoro, l’esecuzione di altre esperienze, la modifica di
altre teorie, e il suo medesimo intreccio di una ipotesi di
evoluzionismo
e di involuzionismo
in quadri teorici più plausibili.
Questo
dovrebbe essere il modo di operare di tutta la nuova scienza
cosiddetta rivoluzionaria, paradossalmente anche conservatrice come
quella di Lucanus,
in un’ipotesi che era costituita con dati già presenti e
attraverso una mente, la più comune che ci fosse in Natura, e che
comunque per lui c’era già, e, quindi, non «nuova».
Del
resto, la novità è legata sempre a un procedimento ipotetico in
quanto tale, che si riscontra proprio sia nel discorso ordinario sia
nel discorso scientifico. Il procedimento ipotetico, e addirittura il
modulo che ha caratterizzato un’intuizione in passato, sembra
diventato inesorabilmente vecchio, dunque. Il margine di
irrazionalità che lasciano queste nuove prospettive inizialmente
«razionaliste» è divenuto abbastanza preoccupante, e perciò
occorre indagare, perché esse hanno posto sotto accusa la scienza
che definiscono «ufficiale», contrapponendola ad una scienza
«fantasma», in una visione di tipo sociologico, probabilmente per
ignoranza od opportunismo.
Una
delle conseguenze reali di Lucanus
apparentemente
poste in modo oppositivo e dialettico, si è tradotta oggi nel
pensare che, date le due tesi opposte o contrarie come evoluzionismo
e involuzionismo,
una sia buona e l’altra sia cattiva. È, invece, assai probabile
che siano valide entrambe: “In
secondo luogo occorre che vi siano delle facoltà contrarie e
antipatiche affinché alterazioni e i cambiamenti siano compiuti”.
Ciò
che anche G. Bruno riprenderà dopo millecinquecento anni: “Sì
che non sono due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di
contrariedade[…]Come
quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla
raggione, la raggione a l’intelletto, l’inteletto a la mente,
allora l’anima tutta si converte in Dio ed abita il mondo
itellegibile”.
Ossia,
una contrarietà tra la spinta dell’anima verso l’intellegibile e
quella verso la corporea bellezza non è indizio di due sostanze
nell’essere umano, ma di un’unica sostanza capace di due opposte
propensioni. Come abbiamo visto anche Aristotele prima smentisce
l’idea dei doi
termini
di contrariedade,
ma successivamente deve ammetterne la valenza.
Per
Lucanus
la materia è ciò che di comune condividono gli elementi dei corpi:
il caldo, il freddo, il secco, l’umido, che divengono poi anche
circostanze contrarie tra loro; anche se i corpi si possano
trasformare gli uni negli altri, i contrari non cambiano mai: “È
per questo che avviene che le sostanze e gli elementi di differenti
potenze del caldo, dell’umido, etc., restano in ciò ch’esse
hanno in comune e cambiano in ciò ch’esse hanno in proprio, quando
un contrario sormonta l’altro contrario, come quando l’umido che
è nell’aria sormonta il secco che è nel fuoco o quando il freddo
che è nell’acqua si trasporta sul caldo che è nell’aria”.
Non
era altro che il germe dell’idea di entropia in un senso di
reversibilità - ma anche di co-evoluzione
e co-involuzione
- che la scienza penserà in futuro di avere scoperto, poiché gli
strumenti tecnici a sua disposizione la collocheranno in una sorta
d’idea evoluzionistica, che si è ulteriormente consolidata fino ad
oggi.
Per
questo Lucanus
denominava mondo
ciò che si chiamava il tutto,
ossia l’Universo,
ma che rientra inevitabilmente nell’idea della Natura di tutte le
sostanze, sia come esseri differenti, sia come produzioni
accidentali.
Perciò
tutte le sostanze contenute nel
mondo
posseggono un’affinità sia elettiva sia materiale con esso, mentre
esso possiede affinità e accordanze solo con se stesso: “Le
generazioni fatte contro natura o fatte con ingiuria alla natura
devono essere soppresse[…]Colloro
che vogliono procreare dei fanciulli, devono avere della preveggenza
nell’interesse dei fanciulli stessi”.
Un’indagine
di André Pichot considera gli elementi essenziali necessari a un
pensiero di tipo scientifico che erano anch’essi apparsi intorno al
V secolo a.C cominciando la loro avventura in Egitto. L’indagine
inizia in Mesopotamia e si conclude nella Grecia prima di Socrate,
passando attraverso le piramidi e il mondo lambito dal Nilo. Quello
che Pichot propone è una sorta di indagine nella geometria e
matematica dell’Egitto. Nel mondo mesopotamico, ad esempio, prende
in considerazione il rapporto esistente tra la manipolazione dei
metalli e alcune concezioni che si possono ritenere alchemiche,
quindi, soffermandosi a lungo sull’alfabeto cuneiforme, sui
differenti valori dei segni, sulla numerazione sumerica. È
interessante oggi notare, e Pichot lo evidenzia con chiarezza, che
nella civiltà mesopotamica il problema della divisione del grano
portò a una conoscenza sorprendente della matematica. Ad esempio,
essi sapevano dividere una certa quantità secondo i termini di una
progressione aritmetica, sapevano calcolare gli interessi, e così
via.
Ma
quel che ci interessa ancor più è che alcune tavolette contengono
quesiti risolti con il sistema delle equazioni di primo grado a due
incognite. Comunque, tale civiltà conosceva anche l’equazione di
secondo grado e sapeva calcolare il volume del tronco di piramide
quadrata. I problemi del mondo egizio sembrano addirittura simili ai
nostri.
Il
papiro Rhind, databile 1650 a.C., tratta della moltiplicazione di
somme di frazioni e addizione di frazioni a differente denominatore.
Nel
succitato papiro, molto importante per conoscere la matematica
tradizionale, troviamo la progressione geometrica, equazioni di primo
grado - il problema è riconducibile ad esse -, etc.
Interessante
è osservare come in questo testo venga calcolata la superficie del
triangolo, del trapezio - considerato un «triangolo tagliato» -, la
superficie del cerchio, nonché la comparazione tra la superficie del
cerchio e quella del quadrato, il volume del cilindro, e così di
seguito.
Nel
papiro di Mosca - 1800 a.C. - si calcola il volume del tronco di
piramide e in un papiro conservato al Cairo in scrittura demotica si
trova la soluzione egiziana di quello che noi conosciamo come il
teorema di Pitagora.
Tuttavia,
non bisogna dimenticare che sia l’aritmetica che la geometria di
queste due regioni sono nate e si sono sviluppate grazie a problemi
pratici. Nella Grecia del IV secolo a.C. possiamo trovare un «dio»
geometra che inglobi in sé la mistica dei numeri. Con l’ingresso
perentorio nella storia della Grecia, la matematica assumeva un altro
valore. Non a caso quello che viene considerato il primo filosofo
dell’Occidente - secondo uno schema caro ad Aristotele -, ovvero,
Talete, era al tempo medesimo matematico e filosofo; la medesima
scuola pitagorica prova che tra la scienza e la filosofia non c’è
e non c’era alcuna differenza e la mistica del numero finiva con il
coincidere con quella con cui si regge il mistero del cosmo.
L’indagine
di Pichot si spinge anche tra le concezioni degli atomisti -
Democrito e la sua scuola - si sofferma sul singolare modo che ebbe
Empedocle di intendere la Natura, si chiude con la scuola ippocratica
di medicina. Come lui gli egizi avevano un medico per l’occhio
destro e uno per quello sinistro, i greci resero moderno e operativo
il metodo di cura basato sulla ragione.
Ciononostante,
l’umanità oggi si avvicina sempre più rapidamente a una
catastrofe naturale. Gli eccessivi consumi, soprattutto di energia,
non consentiranno il nostro sostentamento, causa l’esaurimento
delle risorse rinnovabili e l’inquinamento. La tecnologia non ci
aiuterà, anzi aggraverà il problema, perché guidata dalla domanda
crescente di consumi.
Il
guru ambientale J. Rifkin
ritiene che l’unica, e probabilmente, l’ultima via di salvezza
per l’umanità dovrebbe essere l’amore di noi stessi che ci
convinca finalmente ad abbracciare stili di vita compatibili con una
società a bassi consumi.
Egli
si richiama agli strumenti per la gestione di una società esemplare:
«linee-guida» - fissate dallo Stato pubblico - per garantire che
una produzione industriale sia ridotta coerentemente al paradigma di
una crescita lenta; eliminazione della proprietà privata sulle
risorse naturali, sostituita dalla «custodia di pubblico interesse»;
produzione nell’ambito di piccole imprese con partecipazione
democratica dei lavoratori; fine delle megalopoli, infatti,
dovrebbero ridursi alla soglia di 100mila abitanti.
Rifkin
già nel 1980 nella prima edizione del suo lavoro anticipava in
un’affermazione: “È
inevitabile il deteriorarsi della posizione di punta dell’America
nella tecnologia.”
L’argomento
centrale dell’opera era ancora l’entropia, la misura dell’aumento
del disordine di un sistema chiuso, ossia, della degradazione del suo
contenuto di energia - per il II principio della termodinamica -.
Si
evince che la Terra non essendo un sistema chiuso, riceve
costantemente un’abbondante energia solare, il cui costo per la
produzione di energia elettrica sta riducendosi.
In
merito alle risorse naturali, già nel 1908 i Governatori Usa avevano
affermato che il carbone si sarebbe esaurito in 50 anni e il legno in
30; nel 1972 i limiti dello sviluppo prevedevano una catastrofe
naturale planetaria entro un secolo. Purtroppo la previsione si è
ridotta della metà, ossia, entro mezzo secolo da allora, vale a dire
cinquanta anni.
Paradossalmente
negli anni ‘90 gli Usa hanno avuto un boom socio-economico
straordinario, anche se ora si è ridimensionato, forse per merito
della loro eccellenza tecnologica; basti pensare a Sylicon Valley. Le
scienze economiche sembra siano state così ridimensionate, sebbene
se si consulti un qualsiasi testo scolastico di economia esso ci dirà
che l’economia non è altro che un gioco di dare e prendere lungo
le curve statistiche di domanda-offerta. Ovviamente in questa
simpatica barzelletta si è ignorato l’importanza degli strumenti
di un’economia ambientale, per ridurre il «fallimento del mercato
globale» a favore dell’ambiente.
Perché
il cosiddetto catastrofismo continua ad avere successo? Ce lo spiega
il grande antropologo Francesco De Martino: “L’apocalittica
formicola di contraddizioni. La fine viene prospettata in un quando
più o meno prossimo e determinato: ma ogni volta che le scadenze
restano senza esito l’apocalittica... ricorre a spostamenti... e
riplasma se stessa ritessendo la stessa nuova crisi. Quanto ai
credenti, essi fanno come quegli indiani che nella loro escatologia
avevano posto in primavera la data della fine: il termine fu
semplicemente rinnovato sempre di nuovo.”
Sembra
che mescolare quantità enormi di catastrofismo ambientale, riscuota
comunque un’equivalente scetticismo e indifferenza da parte
dell’opinione pubblica, rassegnata e indispettita al grido del: al
lupo al lupo, e quando arriverà veramente nessuno sarà pronto a
difendersi da esso.
Risuona
l’eco di Lucanus
rivolto comunque ad una società lungimirante e sapiente che guardi
sempre all’interesse dei suoi fanciulli: “Ma
ciò che occorre soprattutto osservare e starne in guardia è che nel
momento della generazione -
involuzione
-
si abbia lo spirito tranquillo, poiché semenze sono rese cattive
dalle affezioni folli, incostanri e larvali”.[…]“Non
è vergognoso che gli uomoni tengano alcun conto dei loro propri
figli, ch’essi li generino per caso e ch’essi curino poco il loro
nutrimento e la loro educazione?”
Se
Aristotele intendesse il realizzarsi di una «forma» esperienziale
come un movimento astratto, ossia, come passaggio dalla potenza ad un
atto motorio in un luogo naturale che non era possibile classificare
come l’esistenza del movimento proveniente dalla semplice esistenza
di un corpo e un luogo, Lucanus
tendeva a ridurre il movimento
cosiddetto a un mutamento
naturale del singolo corpo, purché si rispettassero le leggi
naturali che lo legavano al tutto.
Mentre
anche Kant successivamente avrebbe distinto il carattere
esperienziale in due forme: una naturale e una astratta. Tali leggi
naturali non essendo state scritte ma trascritte all’interno della
nostra genesi cosmica, sarebbero poi state riportate e riferite in
forma numerica e letterale, in un dizionario numerico generale che è
divenuto il magazzino della nostra interiorità, che qualcuno spesso
ha voluto definire anima.
Come
detto in precedenza: i fenomeni della cosiddetta antiperistasi
si spiegavano in passato come un effetto della concentrazione
dell’energia di un elemento qualora si trovasse sottoposto
all’azione dissolvente di un elemento contrario: l’elemento
attaccato raccoglie e puntualizza la sua virtù in uno spazio minimo,
il quale potrebbe essere rappresentato dalla nostra anima, la quale
raccolta in uno spazio minimo in senso bruniano, deve raccogliere
anche un massimo contrario.
Allora
inizia l’opera dissolvente, affinché questo contrario venga
dissolto all’interno di uno spazio altresì minimo, ma ad una
velocità operativa così enorme, da far risultare la velocità della
luce una comparsa e un’ombra di se medesima.
Il
dilemma che si è trascinato nei secoli fino a noi è stato cosa
includere nel naturale e cosa nell’astratto, ma forse che cosa
rappresentasse l’essere umano come naturale e astratto.
L’idea
di magia Bruniana è ciò che si è avvicinato maggiormente al
concetto di astratto; purtroppo il periodo della caccia alle streghe
e l’inquisizione hanno minato profondamente una renovatio
bruniana in senso classico, vista come un esempio riferito all’ambito
delle grandi religioni civili pagane dell’antichità romana.
Così
riferendosi alla scuola dei Romani, che proprio sull’idea di
religio,
nel senso latino di congiungere, rafforzarono anche la loro
grandezza, e persino agli antichissimi egizi e alla loro religio
naturale che, anche secondo il cosiddetto ermetismo rinascimentale,
si serviva della magia come strumento teurgico e come via per
penetrare il mistero della Natura, dunque come tecnica in senso
specifico e astratto. In tale metamorfosi, il sapere teoretico oggi
co-evolve con la lingua emergente, e attraverso l’osservazione e in
particolare con la manualità intesa come strumento di trasformazione
oltre che metamorfosi della specie. Si evince che dal confronto tra
logica e metafisica non sia il pensiero, ma l’esercizio dell’organo
della mano ciò che distingue gli esseri umani dagli animali.
Qualche
decennio dopo Bruno, Descartes tesseva un encomio della mano
ravvisandovi un analogia nell’essere umano, la mano non come un
organo, ma quasi un individuo.
Nel
secolo XX Heidegger non ha esitato, in una delle sue frequenti
riflessioni umanistiche, a sostenere che solo l’essere umano
possiede una mano, mentre la scimmia non possedeva che arti.
La
vita terrena non è il dato individuato degli esseri umani, i quali
conversano nelle città dell’utòpia,
bensì un flusso cosmico che attraversa ogni cosa, il tutto,
e lo spirito è uno spirito astratto vivente, così come la materia è
divenuta comunque animata.
Per
Bruno le cose quali noi le vediamo non sono la totalità dell’ente,
ma solo ombre di esse, destinate a svanire, e ogni essere vivente,
nel suo mutamento e finire, è già avviato verso la rinascita o
meglio diremmo oggi verso la
redenzione,
perché la vita, e non l’ente determinato, è ciò che importa e
costituiva anche l’Universo di Occellus
Lucaus.
Così
per il microcosmo come per il macrocosmo, seguendo la metafora
platonica del cosmo come «animale vivente», Bruno immagina infiniti
universi che diventano un phantasticum
chaos,
in modo analogo i piccoli animali, come siamo anche noi esseri umani,
sono destinati alla morte, ma anche alla resurrezione o alla
metamorfosi: “Primum
autem subiectum[…]est
phantasticum chaos ita tractabile, ut cogitativa potentia ad trutinam
redigente visa, atque audita in talem prodire possit ordinem, et
effigiem”.
Così,
come sosteneva Paul Davies a proposito di un cosmo intelligente, che
cosa si dovrebbe dire a proposito delle teorie recenti sugli
epifenomeni caotici terrestri?
Negli
Stati Uniti i fisici che indagano da tempo sui metodi più efficaci
per comprendere il caos sembrano avviati verso una strada promettente
per trovare una risposta a domande tradizionalmente trascurate per il
risvolto inusuale o non logiche che hanno epifenomeni naturali dal
comportamento cosiddetto complesso, imprevedibile e casuale. Questi
epifenomeni sono numerosi, vanno dal flusso turbolento dei torrenti
di montagna, ai cambiamenti atmosferici, dai vortici delle onde nel
mare in tempesta ai movimenti turbinosi della crema, girata
lentamente, nel cappuccino.
Oltre
che nelle manifestazioni macroscopiche della Natura, si ritrovano
anche in quelle infinitesimali, come il comportamento irregolare e
complesso delle particelle di materia accelerate all’interno di un
plasma, il gas ionizzato che in Natura si trova nelle stelle e nei
gas interstellari, e, in laboratorio, viene studiato per produrre
energia termonucleare controllata.
Quest’ultimo
esempio di fenomeno singolo complesso solleva una domanda inquietante
per la fisica, ossia, su come faccia cioè il moto deterministico e
reversibile di particelle individuali a generare un comportamento
irreversibile del sistema così come lo descrive la meccanica
statistica e la termodinamica. I progressi compiuti negli ultimi
cento anni per rispondere a questa domanda sono stati molti, ma
rispondere rimane difficile a causa del carattere non lineare delle
equazioni matematiche che modellano i sistemi fisici.
Negli
ultimi dieci anni però, attraverso una sintesi di simulazioni
numeriche e di approssimazioni analitiche, resa possibile dall’uso
dei supercomputers, e in particolare di grafici computerizzati, i
matematici «sperimentali» sono riusciti a fare grossi passi in
avanti in questo senso e una scoperta sorprendente è stata la
constatazione di un ordine nei comportamenti irregolari, una scoperta
che ha condotto allo sviluppo della dinamica non lineare, un
approccio nuovo che unisce gli «esperimenti» numerici all’analisi
matematica. La vera sorpresa per i ricercatori non lineari è stato
osservare che, contrariamente a quel che può aver creduto Newton, le
equazioni deterministiche della meccanica classica non implicano
necessariamente un universo ordinato e regolare.
Sistemi
deterministici con solo uno o due gradi di libertà come la mappa
logistica, una equazione usata per predire le dimensioni di una
popolazione biologica che cambia o la fluttuazione dei prezzi
economici, possono risultare altrettanto imprevedibili e caotici come
la roulette o l’atmosfera, per tradizione considerati sistemi
dinamici con alti numeri di gradi di libertà.
Questo,
secondo i fisici, ha a che fare con la casualità dei numeri reali,
di tutti quei numeri che si possono rappresentare attraverso una
espansione decimale. Ogni sistema caotico non lineare è un modello
che «legge»
le condizioni iniziali.
Questo
però vuol dire che, lievi errori o cambiamenti nelle condizioni
iniziali, corrisponderanno a letture o interpretazioni diversi che
raccontano storie differenti. I sistemi caotici dinamici,
diversamente dai sistemi regolari, sono molto sensibili alle anomalie
matematiche di sequenze digitali infinitamente lunghe come i numeri
reali, che si sottomettono a quasi tutte le descrizioni matematiche
degli epifenomeni naturali, anche se questi numeri reali non siano
computabili.
Qualcuno
allora ha proposto di tralasciarli nella formulazione di teorie
importanti della fisica.
Una
soluzione del genere, secondo quanto ha dichiarato Roderick V.
Jensen, un professore di fisica applicata all’università di Yale,
che ha condotto uno studio sul ruolo del caos nei fondamenti della
meccanica statistica, potrebbe condurre ad una rivoluzione nelle
scienze naturali.
Tuttavia
è possibile che la scala alla quale avviene l’abbandono dei numeri
reali sia così ridotta da rendere impossibile un utilizzo delle
conseguenze pratiche di questa scelta. In quel caso, osserva Jensen,
l’avanguardia nella comprensione del mondo reale attraverso i
numeri naturali dovrà probabilmente passare dal dominio della fisica
a quello della φιλοσοφία.
Ma non sarà una metamorfosi pacifica, poiché siamo ormai dominati
dalla logica aristotelica, o così vuol sembrare, ma la critica non è
rivolta allo Stagirita, bensì all’abuso che ne stanno facendo i
cosiddetti eruditi contemporanei.